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Cambio o no? La sfida della HR Retention per le aziende

In questo periodo un tema che si sta mostrando molto caldo è quello relativo al mercato del lavoro, mai così movimentato come in questi primi mesi del 2022. Da un lato ci sono imprenditori, soprattutto nel campo del turismo e della ristorazione, che lamentano una grande difficoltà nel trovare nuovi dipendenti, dall’altra un’offerta di lavoro che si sta modificando in maniera strutturale sia cercando un migliore bilanciamento tra vita professionale e vita privata sia migliori condizioni a livello economico e di crescita prospettica. No, non è questo un attacco al Reddito di Cittadinanza, benché l’istituto abbia diversi punti, diciamo, discutibili ma il tentativo di portare a terra un ragionamento, il più possibile realistico, su dove stia andando il mercato del lavoro italiano.

La parola “mercato” è il vero punto focale della situazione contingente, comunque. Perché le dinamiche che si stanno vedendo in questi mesi sono esattamente quelle volte alla ricerca di un nuovo equilibrio di mercato e non possono essere additate come derivanti da una “pioggia” di sussidi (che in realtà non c’è mai stata) che ne vadano a distorcere, se non marginalmente, l’evoluzione.

Non si può, ovviamente, negare che l’introduzione del RdC abbia avuto un suo ruolo creando una base salariale sotto la quale è difficile accettare una proposta di impiego ma i numeri dei percettori (1,22 milioni di individui, il 2% circa della popolazione, secondo Youtrend) e gli importi medi erogati (576 euro al mese) non dipingono certo una situazione di disincentivo reale al lavoro, benché possa spingere una persona a non accettare un lavoro con un pay-out inferiore, per impegno richiesto e salario al netto delle spese (trasporti, vitto, etc.) necessari per svolgere i compiti proposti ma questa situazione si mostrerebbe solo nel caso di lavori a bassissima qualifica e per cui o sia stato fissato dai CCNL un salario pari o sotto la sussistenza (e ne esistono) o laddove la parte datoriale attui degli artifici per comprimere il costo del lavoro ben al di sotto del reale impegno richiesto dai dipendenti (indicativo, a proposito, è il lavoro di inchiesta che Charlotte Matteini sta conducendo sulle pagine del Il Fatto Quotidiano).

È interessante, però, che il RdC, insieme a una ormai stucchevole retorica su “bamboccioni” e giovani “choosy”, sia una delle principali motivazioni addotte da tanti sulla difficoltà di trovare manodopera cosa che fa capire quanto la reale offerta salariale per questi tipi di lavoro non si discosti molto dal sussidio governativo per occupazioni, spesso, full time e, comunque, economicamente ben al di sotto del livello di sussistenza se anche solo una persona dovesse pagarsi i trasporti per raggiungere il posto di lavoro e le bollette della casa (che ovviamente già possiede perché a quelle cifre manco un monolocale nelle più remote periferie sarebbe abbordabile).

Esiste un dato, però, che smentisce tutta questa narrazione che è il livello occupazionale del Paese, pari a poco meno di 23 milioni di individui che è, più o meno, stabile da molto tempo, tra dipendenti e liberi professionisti. Sì, il numero è esiguo visto che ogni due lavoratori, direttamente o per via erariale, ne mantengono tre inattivi ma il punto focale, in questa trattazione, è che l’offerta di lavoro non si sia modificata, in valore assoluto, con l’introduzione del RdC che è andato, in tutta evidenza, a dare un’entrata a persone precedentemente escluse dal mercato del lavoro non a sostituire salari, quindi la vera causa di questa difficoltà a trovare personale va cercata altrove.

Quello che si sta manifestando in questi mesi, infatti, è principalmente ciò che in inglese viene definito come il problema della “retention” ovverossia della capacità delle aziende di trattenere i dipendenti. Una ricerca del portale INDEED mostra che una larga parte di lavoratori non sia più soddisfatta del proprio impiego e che quasi la metà, esattamente il 46%, sia intenzionata a cambiarlo entro l’anno. Sicuramente una delle cause di questo nuovo scenario va ricercato nei due anni di emergenza sanitaria che hanno portato a una vera e propria modificazione delle abitudini delle persone, spingendo a nuovi equilibri tra vita lavorativa e tempo libero e cambiando radicalmente le prospettive lavorative.

Questa mutazione è trasversale per genere, per competenze e per ruoli: quello che, prima, veniva accettato come la normalità ora viene visto come un peso, un problema da smarcare in maniera efficace, e a una mutata offerta di lavoro consegue che anche la domanda si adegui per poter intercettare nuovi talenti o trattenere quelli già in organico.

Le nuove richieste, inderogabili, non riguardano solo l’aspetto salariale, ovviamente sempre centrale nella valutazione delle proposte di lavoro, ma anche una maggiore flessibilità ed è molto interessante che questo non sia una mutata esigenza della parte datoriale ma dei lavoratori stessi, spesso, in passato, dipinti come una delle maggiori rigidità del mercato, seguendo il mito del “posto fisso” che, ora, non sembra più essere uno degli obiettivi da raggiungere.

Come già accennato le nuove ricerche di impiego non sono più indirizzate solo verso la realizzazione professionale e al miglioramento del livello reddituale ma anche e soprattutto verso un miglior bilanciamento della propria vita, inseguendo un maggior benessere personale frutto di una migliore combinazione fra i tempi dedicati al lavoro e quelli alla vita privata.

L’anglicismo, creato però in Italia e inesistente nei paesi di lingua inglese, di “smart working” viene, così, colmato di significato che va al di là del mero telelavoro da casa aggiungendovi anche quell’elemento di flessibilità, oraria e di luogo, che sarebbe previsto in quello che, più correttamente definito, sarebbe il “lavoro agile” previsto dalla Legge 81/2017.

Il cambiamento qui descritto relativo all’offerta di lavoro, numeri alla mano, è credibilmente strutturale e, ora, “la palla” passa lato domanda, alla parte datoriale che sarà obbligata ad allinearsi alle richiesta per giungere a un nuovo equilibrio e non trovarsi sguarnita di manodopera o, peggio, a dover fronteggiare un’emorragia di lavoratori che, contrariamente a quanto pensino certi imprenditori e professionisti “illuminati” non rappresenta un mero costo ma un essenziale investimento produttivo a medio-lungo termine.

Il vero costo da fronteggiare, in caso, sarebbe quello relativo al ricambio o al mancato ricambio se nessuno sia disposto ad accettare l’impiego proposto. Nel primo caso, infatti, si parla della spesa relativa alla formazione e all’integrazione delle risorse umane nel sistema produttivo che, difficilmente, potrebbero essere da subito efficienti, indipendentemente dagli studi e dalle esperienze pregresse, dovendo imparare le procedure interne e comprendere le dinamiche produttive aziendali prima di diventare redditizi; nel secondo si sconterebbe, invece, il mancato apporto al processo produttivo di un tassello essenziale (perché, altrimenti, non sarebbe stato cercato) che difficilmente potrebbe essere sostituito se non al costo di una minore produttività o di una mancata crescita. Un altro aspetto da tener conto, ben prima delle dimissioni da parte di un lavoratore, è che una persona scontenta che medita di cambiare lavoro sarà, per definizione, meno coinvolta e meno produttiva di una soddisfatta a livello professionale e personale.

La modifica della proposta economica da parte della domanda di lavoro è, certamente, onerosa nel breve termine, coinvolgendo salario, benefit, welfare e organizzazione aziendale, ma è un investimento vincente già nel medio periodo permettendo alle imprese di intercettare i migliori talenti e di trattenerli in organico, cosa che permette di spingere verso l’alto sia produttività e qualità della propria offerta commerciale di prodotti e servizi sia una promozione efficace dell’immagine aziendale che rappresenta, in ogni caso, un posizionamento di marketing vincente. Tutto, ovviamente, per arrivare anche a un credibile miglioramento della redditività dell’azienda.

Quello che serve, ora, è un cambio di mentalità e di visione da parte di datori di lavoro e di management in Italia; molti hanno già accettato la sfida e i risultati sembrano dare loro ragione, gli altri riusciranno a seguirli?

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