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Caino e Abele tra i migranti

Non passa giorno che in nome della religione qualcuno uccida un altro essere umano. La violenza sempre più efferata prende il sopravvento, e innesca reazioni uguali e contrarie. La rabbia si trasforma in odio, e la spirale prosegue. L’orrore chiama altro orrore, fino alla distruzione finale. Che è invece ciò che dobbiamo evitare. L’ultimo episodio dei migranti cristiani gettati in mare solo perché tali, da una quindicina di musulmani, testimonia il livello di aberrazione in cui siamo precipitati: l’uomo non riesce più a riconoscere se stesso negli occhi di un altro essere umano, nemmeno nella stessa situazione di dramma, compagni di viaggio in una traversata dal futuro incerto. Come novelli Caino e Abele si uccide il proprio fratello.

Siamo di fronte a una sfida umana e prima che militare; far si che non sia possibile ammettere la violenza, per nessun motivo. Le tre grandi religioni monoteiste non predicano l’odio né la morte, non vedono nemici ma casomai persone da redimere o evangelizzare, non certo da massacrare.

Non bastano però le buone intenzioni per cambiare le cose; occorre l’impegno deciso dei governi, delle autorità civili e religiose del mondo. Risuonano ancora forti le parole pronunciate da Papa Francesco nel periodo di Pasqua, quando chiedeva che la comunità internazionale non fosse “inerte e muta” di fronte all'”inaccettabile crimine” delle persone uccise per il solo fatto di essere cristiani: “Si stratta di una preoccupante deriva dei diritti umani più elementari. Auspico davvero che la comunità internazionale non giri lo sguardo dall’altra parte di fronte a questi fratelli, loro sono i nostri martiri di oggi, e sono tanti”. Il Papa ha insistito su due elementi: uccidere i cristiani è una violazione dei diritti umani, e la comunità internazionale non può girarsi dall’altra parte.

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