Forse conviene partire dal fondo. O, se volete, dal senso che ha scatenato il dissenso. L’obiettivo del ricorso al voto di fiducia sulla legge elettorale, sovvertendo una regola non scritta ma codificata dalla consuetudine, è quello di arrivare a un via libera definitivo prima della chiusura della sessione di bilancio, che inizia il 27 ottobre. Dopo l’approvazione della legge il governo avrà bisogno di ulteriori 30 giorni per disegnare i collegi. A quel punto, e solo in quel frangente, si potranno sciogliere le Camere.
Al Senato il problema dei voti segreti è relativo visto che possono essere richiesti in un numero limitatissimo di casi, ma c’è comunque il problema di superare le resistenze dei senatori a dare il proprio consenso a una legge su cui non hanno messo becco. Per questo c’è chi ha avanzato l’ipotesi di un ricorso voto di fiducia anche a Palazzo Madama, dove i numeri sono sempre un problema.
Più che sfiducia nei numeri, dunque, esiste un problema di tempi. Un quadro, quello appena delineato, che non spiega tutto ma aiuta a comprendere la necessità del Pd di saltare i tempi e quella del governo di rendere più corta l’agenda. Ed è per quest’ordine di fattori, come sostengono molti esperti, che Paolo Gentiloni, alla fine, ha cambiato idea. Su sollecitazione di Matteo Renzi e con la copertura politica del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che da mesi invitava il Parlamento a varare una legge elettorale, il governo ha posto la questione di fiducia.
Ma non bisogna cadere nell’inganno che questa sia una prova di forza. Al contrario, in questo caso la fiducia è l’espressione della fragilità di questa maggioranza che neanche di fronte a un ampio consenso intorno al testo del Rosatellum bis, si è sentito al riparo dai franchi tiratori. Al Pd che da solo alla Camera avrebbe i numeri sufficienti per approvare qualunque cosa, non è bastata la convergenza di Forza Italia, Ap e Lega per evitare questo strappo istituzionale che ha trasformato l’Aula di Montecitorio in uno stadio e le vie del centro della Capitale in piazze di protesta.
Il M5s davanti alla Camera, Sinistra italiana e Articolo 1 – Mdp al Pantheon. Ma c’è anche un altro particolare da tenere ben presente. Con il ricorso alla fiducia si apre ufficialmente la campagna elettorale, che dà al fronte del populismo nuovo pane di cui alimentarsi e che paradossalmente potrebbe trasformarsi per il Pd in un boomerang al momento delle urne. La scelta di Gentiloni di porre la questione di fiducia, poi, non ha fatto altro che polarizzare le posizioni in campo.
Giuliano Pisapia è stato chiaro: “Non si può dire ‘andiamo uniti’ mentre si fa una legge elettorale con Berlusconi, Salvini e Alfano. Per noi questo è uno spartiacque”. Roberto Speranza, oggi esponente di Mdp ha definito la fiducia “una violenza inaccettabile”. Per Speranza questo è un film già visto. Lui in occasione del voto di fiducia sull’Italicum abbandonò il ruolo di capogruppo del Pd con queste parole: “Non cambiare la legge elettorale è un errore molto grave che renderà molto più debole la sfida riformista che il Pd ha lanciato al Paese”.
Insomma, le scene delle scorse ore le abbiamo già viste nel 2015 e quello che è più grave, che esaspera gli animi dentro e fuori il Parlamento è che la storia si ripete sempre uguale a se stessa, sperando che nessuno se ne accorga. Ma come fa notare qualcuno interno al Pd “la vittoria di oggi non vuol dire che la gente alle elezioni voterà per noi. A colpi di maggioranza abbiamo portato a casa tante cose, ma poi il tonfo del referendum l’abbiamo sentito tutti”. E non è detto che la caduta non si ripeta. Forse con minor dolore, ma non per questo meno pesante.