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Chat-dipendenza: erronea fiducia virtuale e sfiducia nel prossimo reale

Il web permette di instaurare nuove relazioni in tempi brevi; spesso diviene una sorta di “supermarket”, in cui, finché conviene, si conserva il contatto, nel momento in cui ci si stanca, si procede verso altri profili

La dipendenza da chat e da relazioni virtuali (conosciuta anche come Cyber-Relational Addiction) è una delle patologie riferibili a Internet, tipiche del mondo globalizzato contemporaneo, che causano effetti devastanti a livello psicofisico e sociale. Ne sono colpiti in maniera particolare i giovani, più dediti alla navigazione in rete. Si caratterizza per la gestione esclusiva dei rapporti personali attraverso i canali, i servizi, le app di chat e messaggistica. Si evidenzia, in genere, nelle relazioni di natura sentimentale ma può riguardare anche altri aspetti.

Il tutto si riconduce a una più vasta forma di dipendenza da Internet (Internet Addiction). Tale condizione, tuttavia, non è stata riconosciuta come disturbo (senza sostanze) nell’ultima versione (V del 2013) del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali ma è stata considerata come proposta, da sottoporre a ulteriori studi.

Non vi è un limite di tempo oltre il quale si certifica la dipendenza, questa non ha solo carattere quantitativo ma anche qualitativo. L’uso delle chat diviene patologico quando non si riesce a farne a meno, nel momento in cui l’impossibilità a utilizzare uno schermo crea notevoli disagi, se produce, narcotizzando, vuoti di tempo nella vittima, con conseguente abbandono delle normali relazioni. Si avverte anche attraverso una profonda alterazione dei ritmi circadiani e della sana routine quotidiana nonché nell’allentare, pericolosamente, il senso del dovere.

Si sviluppa attraverso un uso smodato dei social e delle piattaforme di messaggistica. Chi ne soffre, non riesce a moderare i tempi di utilizzo e diviene schiavo di uno schermo e di un’applicazione che, invece di rappresentare un mezzo, costituiscono il fine di una vita surrogata e virtuale. La dipendenza altera le relazioni sociali: non più fisiche e reali ma virtuali e non sempre vere (non sapendo con certezza chi vi sia dietro un nickname, un account e un profilo). Un possibile paradosso consiste nell’essere in grado di gestire più conversazioni in rete ma di non saper intrattenere, invece, un dialogo verbale con le persone in carne e ossa, sia quelle più vicine come familiari, amici, colleghi sia con il prossimo accanto, in un autobus, in un negozio. La convinzione è che l’unica forma di nuova conoscenza sia quella virtuale. Si tratta, quindi, di una comunicazione menomata, né verbale né basata su gestualità e prossemica che, di fatto, riduce gli interlocutori virtuali a delle macchine. La fine dell’alterità.

Il 24 gennaio 2013, nel Messaggio per la XLVII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Papa Benedetto XVI precisò “Vorrei soffermarmi a considerare lo sviluppo delle reti sociali digitali che stanno contribuendo a far emergere una nuova «agorà», una piazza pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità. Questi spazi, quando sono valorizzati bene e con equilibrio, contribuiscono a favorire forme di dialogo e di dibattito che, se realizzate con rispetto, attenzione per la privacy, responsabilità e dedizione alla verità, possono rafforzare i legami di unità tra le persone e promuovere efficacemente l’armonia della famiglia umana. […] Se i network sono chiamati a mettere in atto questa grande potenzialità, le persone che vi partecipano devono sforzarsi di essere autentiche, perché in questi spazi non si condividono solamente idee e informazioni, ma in ultima istanza si comunica se stessi”.

Il dottor Valerio Simonelli, neuropsichiatra infantile, è l’autore del volume “Le videodipendenze nei bambini e negli adolescenti” (sottotitolo “Internet, videogiochi e social network tra opportunità, limiti e rischi”), pubblicato da “Alpes Italia” nell’aprile scorso. Parte dell’estratto recita “Il progresso tecnologico più dirompente e foriero di opportunità della storia dell’umanità si accompagna al lato oscuro delle videodipendenze, un campo nuovo e ancora poco esplorato nei bambini e nei ragazzi. Gli adulti si trovano in una situazione difficile, tra resa incondizionata e diffidenza integralista, entrambe inadatte”.

Il 9 febbraio scorso, al link https://demoskopika.it/wp-content/uploads/2024/02/CS-DIPENDENZA-SOCIAL.pdf, Demoskopika (Gruppo italiano per le ricerche di opinioni e di mercato), forniva dati sul fenomeno. Fra questi, si leggeva “I giovanissimi, compresi nella fascia di età tra i 18 e i 23 anni, ricadenti nell’area ‘High Addiction’ indicante un alto rischio di livello patologico di dipendenza sarebbero oltre 430 mila, pari al 38% del totale, seguiti dai 390 mila individui di età compresa tra 24 e 29 anni (34,5%) e, infine, dagli under 35 ‘più adulti’ (30-35 anni) che supererebbero di poco i 308 mila soggetti maggiormente esposti. […] solo poco più di 3 giovani su dieci ‘vedono’ quotidianamente gli amici (36,7%) e ancora di meno è la percentuale di intervistati che dichiara di passare il tempo libero con parenti e familiari (17,3%). […] il 10,3% dei giovani presenta un alto livello di rischio dipendenza (‘High Addiction’) dai social media. E, ancora, risulta significativamente preoccupante anche il 15,6% che si colloca nell’area ‘Moderate Addiction’, con una certa propensione, dunque, al pericolo di dipendenza. La maggior parte degli under 35, infine, pari al 74,1%, trova spazio nell’area ‘meno rischiosa’ (‘Low Addiction’)”.

La chat-dipendenza si concretizza in diversi aspetti, fra questi i messaggi compulsivi scambiati sui social, oppure quelli su WhatsApp. In quest’ultimo caso, è diffusa la dinamica dei gruppi: nascono per unire e dialogare ma, spesso, terminano con polemiche, incomprensioni, divisioni e abbandoni, il tutto procedente secondo lunghe sequenze di messaggi. I siti di incontri, che pongono i soggetti in una sorta di vetrina, dove poter scegliere, facilitano, su grandi numeri, i contatti, soprattutto per i più timidi e per chi ha intenzioni adultere. Giungere a un utilizzo frenetico e continuo, di tale tipologia di chat, è un passo breve. Dall’esperienza della pandemia, il minutaggio trascorso davanti agli schermi è impressionante e dilagante: basti guardare i passeggeri dei mezzi pubblici, i passanti per strada e gli automobilisti.

Non occorre essere moralisti per comprendere i danni, a livello fisico, sociale, morale, spirituale che provengono da questa tipologia di dipendenza. Molti di coloro che vi soffrono, che riempiono di click la propria giornata, che rimangono svegli nelle ore notturne, che si isolano nelle case, in cui gli unici “amici” sono i tasti, ne sono consapevoli ma non riescono a interrompere quelle ramificazioni digitali che hanno creato e che pretendono un aggiornamento continuo.

Il paradosso: la subordinazione al web aumenta la diffidenza nei confronti del mondo reale, considerato, a torto (con ripercussioni difficilmente rimarginabili), pericoloso (al contrario del più sicuro “virtuale”). L’anonimato, in cui spesso ci si rifugia, garantisce una maggior libertà d’azione e d’espressione: disinibisce e velocizza, quindi, la quantità dei messaggi da scrivere e ricevere. La dipendenza si caratterizza per il ritmo forsennato con il quale, in genere, sono scambiati i messaggi. L’ansia, dunque, deriva anche dalla necessità di rispondere in pochi secondi e di attendere, con altrettanta frenesia, la risposta, in un circolo vizioso e duraturo, con il conseguente disinteresse verso la persona stessa e ciò che la circonda.

Essere “drogato” di un dispositivo vuol dire rischiare di spezzare legali sentimentali, affettivi, familiari e sociali. Pigiare i tasti alimenta la dopamina, rende appagati, spalanca effimere prospettive, ingigantisce desideri ma determina, di riflesso, irritabilità, stati ansiosi, di tensione e depressione. Può far sprofondare, nel caso di insuccesso o di diminuzione dell’attenzione altrui, in uno sconforto profondo.

L’obbedienza si sostanzia, metaforicamente, nel premere un tasto che attiva, avvia, dà potere e felicità. In realtà, se utilizzato compulsivamente e ossessionatamente, diviene il tasso dell’autodistruzione.

La chat crea un piccolo mondo a sé, molto creativo, simulato e fortemente idealizzato, di evasione sino a epiloghi caratterizzati da facili innamoramenti (molti sono tradimenti). Il lavoro di “modellamento” che si proietta sul partner o su un amico, affinché, inconsciamente, sia più incline alle proprie aspettative, trova un’applicazione più serrata e apparentemente realizzabile.

Idealizzare significa giungere a una sorta di idolatria che non rappresenta l’approccio giusto verso il prossimo, che occorre conoscere per davvero per esser poi capaci di accettarne imperfezioni fisiche e caratteriali, come le proprie. Significa realmente essere apprezzati per come si è e non per come ci si mostra.

Una società aperta, tollerante, non autoreferenziale, deve mostrare le sue grandi braccia accoglienti e ridurre la diffidenza, il sospetto, il giudizio e la bollatura. Anziché rendere le persone come atomi equidistanti, poggiare sul pregiudizio e sullo stigma, la società deve semplificare le relazioni e i dialoghi, anche fra sconosciuti, altrimenti l’assuefazione tenderà a divenire assoluta e l’“altro” solo un apatico e simmetrico schiacciatore di tasti.

In presenza di una droga e di una dipendenza, vi è sempre una figura che tende a supportarla per interesse, lo spacciatore. È opportuno chiedersi, a viso aperto e in maniera diretta: vi è qualcuno che ha interesse a favorire questa chat addiction? La società contemporanea cerca di evitare il trascendere verso questi legami o, in qualche modo, in un cerchio magico di illusioni, tende a favorirli?

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