Essere sé stessi, spesso, può rivelarsi una sfida ben più difficile di quanto non si pensi. Non si spiegherebbe altrimenti il ricorso, sempre più (preoccupantemente) massiccio dei giovani, a dei mezzi estremi per riuscire a dimostrare qualcosa agli altri. Una deriva rischiosa della necessità, intrinseca a quell’età, di sentirsi parte di un gruppo. Qualcosa che, in qualche modo, si tende ad affidare a una maschera piuttosto che al vero senso di sé. Il fenomeno delle challenge, le sfide estreme veicolate attraverso il web come dimostrazioni di forza, coraggio o sprezzo del pericolo, rientrano nel circolo vizioso del bisogno ancestrale dell’uomo (in questo caso del ragazzo) di un’accettazione sociale. Fino, addirittura, a mettere in gioco la propria vita, a dispetto di ogni raziocinio. Interris.it ne ha parlato con il professor Alfredo Altomonte, psicologo e psicoterapeuta: “La ‘cura’ può essere la famiglia”.
Dottor Altomonte, quanto incide il fenomeno delle challenge?
“È una problematica diffusissima, sia in Italia che a livello internazionale. Parliamo all’incirca dell’80% di diffusione globale. Per quel che riguarda il nostro Paese, spesso si fanno ricerche sulle dipendenze comportamentali della Generazione Z ed è risultato che, su oltre 8 mila studenti tra gli 11 e i 17 anni, addirittura il 2,5% manifesta dipendenza totale da internet e dalle challenge”.
Accanto ai numeri, emergono motivazioni visibili?
“Il fascino in genere è costituito dal fatto che si tratti di prove di forza, le quali assecondano la già naturale propensione alla sfida dell’adolescenza. Hanno la promessa infausta di rinforzare l’autostima perché, se arrivi in fondo, allora diventi un ‘top’. Questo si riflette quindi in una dimensione di accettazione da parte del gruppo per alcuni e di leadership per altri. In ogni caso, la volontà di fondo è quella di voler dimostrare qualcosa agli altri”.
Vivere la sfida è un istinto naturale che può essere incanalato dal dialogo. Mettersi in gioco, o addirittura in pericolo, può caratterizzarsi come un segnale alla propria famiglia?
“Assolutamente sì. La quantità del tempo trascorso coi ragazzi è aumentato ma è diminuita la qualità. Non sappiamo più vivere il kairos ma solo il kronos, il tempo in cui li incontriamo e sappiamo giocare con loro. Questo deficit di attenzione e alleanza, spinge i ragazzi a rifugiarsi in qualcosa di più immediato. E se non facciamo comprendere loro che esiste il bello, ecco manifestarsi un rifugio costante e continuo nei social, soprattutto nelle ore notturne. La vera crisi, a ben pensarci, la viviamo noi adulti: ad esempio, essendo costantemente al telefono, diventiamo un modello negativo. Questo utilizzo, anche in momenti meno opportuni, ormai è una convenzione sociale. E, per questo, diventa una testimonianza negativa”.
Spesso si parla di “percezione del rischio” e di quanto questa sia bassa tra chi affronta il mare della rete. Quanto consapevolmente ci si lancia in una challenge?
“Dipende dalle situazioni. La percezione del rischio a volte c’è. In questi casi prevale la voglia di appartenere al gruppo, con conseguente negazione di un lucido esame della realtà. E questo chiaramente comporta lo spingersi anche laddove non si vuole, nonostante la paura, pur di non sentire la frase ‘sei l’unico che non lo fa’. Ci sono casi, invece, in cui non c’è percezione del rischio perché sussiste una superficialità di fondo”.
La tendenza a ritenersi al di sopra del pericolo?
“Siamo in una società tanatofobica. Non parliamo della morte, viviamo come se non esistesse. Per cui, i ragazzi pensano, per usare un termine tra loro in voga, di poterla ‘sfangare'”.
Qual è il ruolo dei videogiochi iper-realistici? In passato, la sensazione del virtuale era limitata a immagini prettamente ludiche. Quella del videogioco era una percezione lucida. Vivere esperienze troppo realistica porta a un’immedesimazione eccessiva?
“Assolutamente sì, perché i ragazzi su internet cercano, come quando guardiamo un film, una proiezione dei propri aspetti. Se si pensa che il 17,5% di tutte le ricerche è legato a contenuti video, risulterà evidente come cresca la voglia di emulare contenuti e creators che, spesso, diventano modelli negativi. Ci si spinge in una costante ricerca che, per certi versi, impedisce lo stare in famiglia. I ragazzi travalicano il gioco perché diventa la vita, si perde il confine. Il gioco non ha fine nella loro testa, continua anche mentre stanno facendo altro. Diventa una sfida con sé stessi. E se questo da un lato può avere una connotazione positiva, perché si allarga la mente e la rapidità di pensiero, dall’altro possono manifestarsi sindromi come occhi tremanti, tunnel carpale e problemi di salute mentale come ansia e depressione. Si sconfina in uno stadio maniacale di tipo narcisistico, tipico di una società individualista. E questo influisce negativamente sulla relazione”.
Non tutto però è perduto…
“Certo che no. L’alleanza tra generazioni si può creare, anche semplicemente mettendosi accanto al ragazzo durante una partita al videogioco. Iniziando quindi quella necessaria relazione nel quotidiano”.