La commemorazione di tutti i fedeli defunti ci raggiunge ogni anno nel periodo autunnale, adatto al clima di mestizia sostenuta dalla speranza che la ricorrenza genera. Anche se, forse, un forte accendersi della fede dovrebbe far prevalere il secondo sentimento sul primo.
Paura umana
Probabilmente se qualcuno, durante una visita a un cimitero ricordasse le parole di Paolo nella lettera ai Filippesi (1,21) le rifiuterebbe. L'Apostolo delle genti, infatti, dice che per lui “il morire è un guadagno”. La situazione di Paolo, prossimo martire, non ci sembra di poterla rapportare alla nostra di un domani che prima o poi verrà. La morte esiste ma non ci si pensa. Il 2 novembre fa sì che, mentre preghiamo intensamente per i nostri morti, inevitabilmente riflettiamo su di noi, su quell’evento finale che non potremo eludere. I nostri cari ci mancano, sappiamo che hanno vinto, che sono salvi con Cristo, mentre noi dobbiamo ancora farlo, preparandoci all'evento finale. Eppure, per convenzione condivisa, ne parliamo il meno possibile. Comprensibile, infatti noi amiamo la vita, come faceva anche San Paolo, ma sappiamo e crediamo che nella nostra vita ce n'è un'altra, quella di Cristo. Non comprensibile però quando si rimuove il pensiero della morte, perché fa troppo riflettere, troppo considerare la condizione di creature.
L'occasione
Disturba il pensiero della morte, meglio non pensare ad essa, meglio ancora sorpassarla, prenderla per il bavero, pensando di buttarla a terra con una iniezione finale. Le parole di Paolo sono in contrasto con la parola “perdita“: il guadagno non è una perdita, ma il conseguimento di una ricchezza, che è data dall’incontro speciale con Cristo, morto e risorto, in quel finale momento per poi rimanere con lui eternamente. I nostri cari hanno trovato un’opportunità nel loro decesso, e anche a noi questa chance si presenterà se saremo uniti a Cristo. Paolo è convinto pienamente sul guadagno poiché nella prima lettera ai Corinti (3,22) afferma che: “Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro!”. Nostra la morte? Ma non c’è bisogno che qualcuno ce lo dica, ne siamo tanto convinti e spaventati che non ne vogliamo sentirne parlare.
Vivere morendo
San Paolo, però, non vuole ricordarci che dobbiamo morire (“memento mori“), ma dirci che in Cristo anche l'evento che conclude l'esistenza umana diventa episodio di vita. E' una porta trionfale che introduce alla gloria eterna del cielo: morte e risurrezione formano un binomio luminosissimo. Paolo in Cristo, morto e risorto, comprendeva questo, come lo compresero i martiri, i santi che ieri abbiamo celebrato. La vita l’hanno vissuta nella Vita, con il fortissimo desiderio di incontrare le braccia del Padre, tese verso di loro, mentre le loro erano tese, in Cristo, nel dono dello Spirito Santo, a lui: sarà l’abbraccio eterno. Troppo alte queste parole? Alte, ma vere, liberanti. La morte è stata disarmata del suo padiglione di paura per noi, che abbiamo fede, che abbiamo accolto la fede, che è offerta a tutti. Chi ha evitato accuratamente di stare accanto a dei morenti, più opportuno considera strano tutto ciò, ritenendo di utilizzare sedativi paralizzanti, riducenti all’incoscienza. Per chi è stato accanto a dei morenti ricchi di fede, queste parole non suonano che come richiamo al vero. La persona accudita, assistita anche con la terapia del dolore, se necessario, non chiede di essere stordita, ridotta in stato di incoscienza, vuole vivere la morte.
L'ultimo istante
Ma ecco, la persona, in Cristo, poco prima di lasciare la terra dà i segni di uno stato di luce, che non è il cosiddetto ben della morte, costituito da un momento effimero di ripresa dell’organismo, dovuto all’accumulo delle tossine, ma si tratta di un vivo incontro con Dio. La persona dice parole profonde, sagge, solenni nella loro grandezza di verità. Ella è raccolta in se stessa, sta vivendo l’istante finale, in modo del tutto inconsueto per noi avvezzi alla divulgazione di discorsi sulla dolce morte, intesa come fuga da una vita che non vuole più essere vissuta. Qua, dove c’è un dolce passaggio dalla terra al cielo. L’ultimo istante Gesù l’ha voluto vivere solo lui. L'abbandono che Gesù ha vissuto nella morte a noi è risparmiato. Dal cielo poco prima o poco dopo scenderà un raggio di luce, che compirà l’ultimo mistero di incontro tra l’anima e Dio, e conferirà a chi è infiammato d’amore, che avrà reso il suo cuore un cielo privo di nubi e di caligini, l’ultima indulgenza di Dio. Dovremmo ricordare questo dei nostri cari. E se non siamo stati presenti per tante circostanze, sappiamo che i nostri cari ora ci danno il bacio della loro preghiera. Preghiamo per loro, ma dobbiamo sapere che già essi già lo fanno per noi. Preghiamo per loro, per la liberazione dalle pene del purgatorio, e sappiamo bene che essi corrispondono alle nostre preghiere, ma non ci venga in mente un do ut des (io ti do affinché tu mi dia), perché sarebbe contrattazione e non dinamismo d’amore, che ha come caratteristica la gratuità. Stiamo però certi che vinceranno loro nell’amore per noi.
Visione completa
Pregano per rimediare ai torti fatti, ai perdoni non dati pienamente a causa di risentimenti, perdoni che avrebbero dato pace a chi li chiedeva, ma ora pregano per la pace di chi hanno fatto soffrire. Chi avesse rancori, ostilità verso qualche suo defunto deve sapere che quando lo raggiungerà nell’aldilà vedrà quanto lui si è adoperato per rimediare: non abbiamo più dunque nessuna ragione per non amarli. Sanno tutto della loro vita. Tutto, il bene fatto e il male fatto, i perdoni ricevuti e gli aiuti ricevuti da Dio e dagli altri, anche quando non li hanno visti. Ora la loro storia è presente ad essi in modo completo. Completo perché la più accurata e monumentale biografia scritta in terra non è mai assolutamente completa, manca la storia dell'incontro intimo con Dio, il dialogo acceso, rallentato, riacceso, spento, ma mai da parte di Dio, intensificato dell’anima con Dio. Incontro non documentabile in terra, ma registrato nel cuore del Singore in Cielo in cielo. Ma la storia si completa anche per la comunione dei santi, realtà meravigliosa istituita da Cristo e operante nella Chiesa, militante in terra, purgante in Purgatorio, trionfante in cielo.
Più di una speranza
Nel cimitero le tombe; belle, di marmo, con sculture. Povere fatte di una semplice lapide, ma comunque tombe. Quei sepolcri, a cui si devono associare quelli immensi dei mari, delle fosse comuni, dei forni crematori di sterminio, sembrano avere una forza possente, invincibile. Ma c’è una parola che sarà pronunciata: Risurrezione. Parola gridata da Cristo davanti alla tomba di Lazzaro: “Io sono la risurrezione”. Visitiamo i cimiteri e ascoltiamo quelle parole, idealmente pronunciate di fronte a tutti i tumuli. Gesù disse: “Io sono la risurrezione” perché quel grido varcasse i millenni e giungesse a tutti. Risorgeremo. Rivedremo i nostri cari, con i nostri occhi ed essi con i loro vedranno noi. Pensiero dolcissimo questo. Risorgeremo e allora che cosa è la vecchiaia? Un andare incontro alla morte? No, perché camminiamo verso la risurrezione. Nessuno deve sentirsi vecchio perché, se l’età avanza per tutti, noi, in Cristo, dobbiamo e possiamo lottare anche contro l’età. Chi è allora vecchio, se non colui che non ama? La morte è per noi, che crediamo, una porta aperta dalla quale scaturisce una luce vivace, gioiosa, che illumina il nostro cammino. Non dobbiamo avere paura di guardare a quella porta, essa è stata resa nuova da Cristo, tanto che varcarla, vivendola, è un guadagno.