Il mantra di questi giorni è che “chi si lamenta non accetta il cambiamento”. In molti casi, soprattutto quando dietro a certe prese di posizione c’è la strumentalizzazione politica, è così. Ma quando le perplessità arrivano dalla base, da chi ogni giorno fa i conti con la realtà, allora forse si potrebbe spendere un po’ di attenzione per cercare di capire.
La riforma annunciata della scuola è uno di questi casi, e va vista con attenzione. Non solo perché del settore scolastico Renzi ne parlò addirittura in campagna elettorale senza che questo si concretizzasse in realtà, ma perché c’è tanto di non detto negli annunci di queste ore.
Ad esempio non si dice come i precari eventualmente assunti saranno impiegati, stante l’indisponibilità di cattedre di ruolo, conseguente anche all’altra riforma – quella delle pensioni – che ha inchiodato sul posto di lavoro tanti insegnanti prossimi alla pensione. Ecco dunque che il futuro per questi ex precari è molto probabile che sia disegnato come “supplenti di ruolo”, che non è esattamente un gratificare la professionalità. E quali contratti avranno i nuovi assunti?
Poi c’è il dubbio della sostenibilità economica. In un Paese dove nelle aule non c’è nemmeno il gesso, dove i genitori sono costretti a contribuire per dare ai propri figli il materiale scolastico, dove le ore a disposizione dei docenti di ruolo sono ormai prossime allo zero, dove gli straordinari sono puro volontariato, le uscite gratuite, e le classi stipate anche con 32 alunni, magari con tre posizioni di sostegno, parlare di rilancio senza affrontare l’aspetto economico sembra più un’operazione filosofica che un piano industriale.
Per anni è stata difesa la scuola pubblica combattendo quella privata, per dare dignità alla cultura “per tutti”; ma la sfida – che non era sulla didattica bensì sull’organizzazione delle strutture, dal punto di vista logistico e di materiali – con questa riforma sembra essere stata persa definitivamente; se è vero come è vero che si chiede agli istituti di diventare autonomi, magari contando sul 5 per mille. In sostanza la scuola statale deve trasformarsi in un’azienda per sopperire ai tagli della spending review, calpestando i diritti dei bambini ad avere un Scuola che restituisca dignità ad insegnanti e alunni.
Non è un’ora in più di inglese o una di informatica a fare la differenza. E’ inutile parlare della scuola del fare o del sapere, delle potenzialità in ambiti diversi, del progettare insieme il futuro se poi tutto viene definito con la penna rossa e blu dei contabili. Il primo obiettivo è il risparmio, anche sui diritti di chi studia.
Va poi sgombrato il campo da un equivoco di fondo: questa riforma riguarda le Elementari, non la scuola in quanto tale. Sono sempre i più piccoli a fare le spese degli esperimenti dei vari governi, e quest’ultimo non ha fatto diversamente dai precedenti.
Così come va sottolineato che si parla di rivoluzioni per cose che sono da decenni inserite nel piano dell’offerta formativa, come l’educazione ambientale. Basta entrare in un qualunque plesso per rendersi conto che questa “materia” è protagonista in quasi tutti gli istituti italiani.
Bisognerebbe riflettere bene sul fatto che si mandano le insegnanti a fare corsi antincendio e di primo soccorso per poi farle lavorare in classi anguste, fatiscenti, non a norma, sovraffollate. Ci sarà anche il germe della rivoluzione, in questa idea del premier, ma bisognerebbe prima togliere le emergenze e solo dopo parlare di come modificare la didattica. L’Edilizia scolastica è ferma da anni, l’informatizzazione è ancora un evento.
A voler concludere con una battuta, forse esiste un perché nell’idea di Renzi di ricominciare dalle elementari: i suoi ministri non parlano mai, e se lo fanno lui li riprende sempre. E’ evidente che bisogna ricominciare dalle basi…