La Giornata Mondiale della Salute, istituita nel 1950 e che si celebra il 7 aprile, in questo secondo anno di pandemia, è un’occasione da non perdere per cercare di fare qualche riflessione, pacata ma rigorosa, sul tema più in generale della vita.
Ormai è più di un anno che sentiamo ripetere ovunque la parola d’ordine anti-Covid: “La salute è il bene più importante per tutti, che dobbiamo difendere, costi quel che costi”. Così, si è chiuso tutto, dalla scuola alle fabbriche, dai negozi alle chiese, dai cinema ai luoghi di villeggiatura. Tutto, ma proprio tutto, si è fermato, con sofferenze di ogni genere.
Tutto si è fermato, ma non la “fabbrica” degli aborti. Anzi, c’è chi ha pensato di “garantire”, per maggior sicurezza, questo cosiddetto “diritto” grazie all’aborto chimico a domicilio, con tanto di circolare ministeriale, targata grottescamente “ministero della salute”, appunto!
Impietosamente, i numeri – che non hanno colore né culturale né politico – parlano chiaro: ogni attività medico-chirurgica ordinaria del nostro Paese ha subìto un pesantissimo rallentamento, ad eccezione delle interruzioni volontarie di gravidanza, considerate alla stregua di interventi indifferibili, d’emergenza e “salvavita”!
La domanda più semplice, quasi banale, che corre nella mente di chiunque cerchi di leggere senza ideologie fuorvianti questo dato di fatto, non può che essere una: “la vita di chi?”. Certamente non del bimbo.
Ma altrettanto certamente, neppure della donna che – magari – con un piccolo aiuto emotivo, affettivo, solidale, economico, assistenziale, lavorativo poteva essere aiutata a raggiungere il bel traguardo del bimbo in braccio, senza che nessuno – proprio nessuno – ne scapitasse. Questo è quello che deve fare una società davvero degna di chiamarsi ”civile”: lottare per la salute di tutti, per la vita di tutti, senza “scarti”, senza imperfetti o indesiderati da eliminare come fosse la più “semplice e normale” delle prassi. E’ necessario ripeterlo, anche se non c’è peggior sordo di chi si rifiuta di ascoltare: non si chiede la condanna della donna che abortisce, riconoscendo che ci possono essere le più svariate motivazioni che portano a questa tragica decisione, ma si chiede – con forza, coraggio e determinazione – di farsi “prossimo”, personalmente e socialmente, di queste mamme tendendo loro una mano, al fine di rimuovere le cause che stanno spingendo verso questo atto di morte.
Nessuno ci perde, se nasce un bimbo in più: non ci perde la società (si pensi alla tragedia della denatalità denunciata da Papa Francesco proprio in questi giorni); certamente non ci perde il bimbo, salvato in extremis, ma non ci perde per nulla neppure la donna che – sono profondamente convinto di quanto sto per affermare – non vuole a cuor leggero la morte della sua creatura! Lasciare una donna sola, di fronte ad una pesantissima e dolorosissima decisione, senza muovere un dito per aiutarla – e le vie legali per farlo sono davvero tante, previste dalla stessa legge 194, salvando bimbo e madre – è indegno di una società civile che mai come in questi giorni ripete, fin quasi all’ossessione, che la salute è il primo bene da proteggere.
Purtroppo, c’è una schizofrenia – personale, culturale e politica – per cui affermazione di principi e prassi sociale vanno in direzione esattamente opposte. Il virus dell’ideologia sta attaccando la vita non meno di quanto stia facendo oggi il coronavirus. Ancora una volta, purtroppo, “contra factum non valet argumentum”: nel periodo 1 gennaio – 1 maggio 2020, nel mondo, i morti per COVID sono stati 237.469; gli aborti 14.184.388! (fonte OMS – worldmeters.info).
Non sprechiamo l’occasione di questa Giornata Mondiale per la Salute per fare un serio esame di coscienza, personale e civile, ricordandoci che “la priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene, anziché ostacolarlo” (CCC n.1888).
Come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II, ci sono delle “strutture sociali di peccato” che abbiamo il dovere di riconoscere e di spendere ogni energia per rimuovere.