L’Italia è l’unico paese tra i paesi industrializzati storici che non cresce da un quarto di secolo; unico ad accumulare debiti su debiti. Le responsabilità di questo disastro sono da attribuire solo a noi stessi: non ci comportiamo da paesi evoluti dove si sa che se hai un debito, te lo devi togliere come fosse un cappio al collo che non ti fa respirare. Ed infatti indebitarsi senza sosta come ci succede, ci sottopone ad effetti disgreganti a catena: crescono le tasse che indeboliscono la competitivà delle imprese e l’occupazione; patiscono i consumi interni per l’impoverimento dei cittadini; gli investimenti per lo sviluppo, il welfare e servizi pubblici vengono ridotti perché le risorse sono dirottate al pagamento degli interessi finanziari.
Nel mentre gli apparati pubblici accrescono l’inefficienza di pari passo agli aumenti esorbitanti dei propri costi, ed aumentano le elargizioni elettorali a mezzo bonus annunciati persino come politiche virtuose espansive. Questa situazione ha potuto degenerare man mano che il populismo si è fatto largo per gravi responsabilità dei partiti egemoni della seconda repubblica. I populisti italiani che hanno in qualche modo conservato le culture e i caratteri delle anime proto populiste in qualche porzione presenti nella destra come nella sinistra della prima repubblica, non conoscono per loro natura altri modi di svolgere il loro compito politico che proporre soluzioni demagogiche e stataliste.
Essendo diventati egemoni nella politica italiana aiutati da un sistema elettorale maggioritario, è ormai necessario per il futuro del Paese rafforzare ogni iniziativa che giunga all’obiettivo di dare vita ad un grande soggetto politico che restituisca al paese una direzione di marcia. Nelle ultime elezioni politiche il terzo polo ha dimostrato che pur non schierandosi con i cartelli elettorali né di destra e né di sinistra, si può concorrere nonostante le leggi elettorali funzionali a mantenere lo statu quo. Questo test rivela la presenza di un elettorato che non si rassegna alla situazione data, e potenzialmente spinge per un partito centrista grande e ben organizzato. Non è un caso che ormai il desiderio di una costituente che si organizzi in un solo partito, sembra una meta riconosciuta ed apprezzata da ogni area che si rifà idealmente al liberalismo, al popolarismo, al riformismo per ridare forza alle nostre filosofie più profonde ed intime e ricollegarci così alle democrazie più evolute europee ed extraeuropee.
A questa iniziativa però bisogna affiancarne un’altra altrettanto importante se si vuole il cambiamento: ricondurre i partiti alla propria funzione di soggetto che provvede a far “concorrere i cittadini con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I costituenti infatti hanno previsto i partiti come “strumenti per l’esercizio della sovranità popolare”. Dal varo della costituzione ad oggi l’art. 49 che li doveva regolare dall’inizio della Repubblica, non l’ha fatto in quanto all’epoca era troppo fresco il ricordo dello Stato fascista che controllava la politica. Ma la situazione dopo più di 70 si è capovolta: è la partitocrazia che controlla le istituzioni, come i cittadini non controllano i partiti a causa verticalizzazione in cui operano, che ostruisce i canali della partecipazione in quanto o sono partiti personali, o oligarchie chiuse per lo più composte da eletti nelle istituzioni indicati dai leader e non negli organismi democratici.
Ecco perché più che porci il problema del presidenzialismo per dare stabilità al paese occorrono partiti che con la partecipazione, non solo con il voto, riportino sé stessi ad essere quei corpi vivi di attività interna di persone corpi intermedi capaci di dare forza alla governabilità democratica. Insomma l’art. 49 della Costituzione dovrà regolare la loro vita interna per riportarli alla democraticità con cittadini che non esauriscono il loro potere solo con il voto ma anche avendo potere dentro i partiti concepiti dalla Costituzione come strumenti di collegamento attraverso la loro partecipazione alle istituzioni democratiche.