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Il vero vincitore delle presidenziali Usa

Il primo pericolo è scampato: c’è un vincitore. Niente risse, niente assalti e transizione ordinata. I coriandoli delle 537 schede della Contea di Palm Beach in Florida, che nel 2000 dettero la vittoria a Bush Jr, questa volta sono rimasti nel cassetto. W. Bush ne uscì vincitore, ma talmente debole che – dopo l’umiliazione dell’11 Settembre – trovò nella guerra in Iraq l’unico modo per ricompattare l’opinione pubblica americana e ridare autorevolezza al suo primo mandato. Venne anche rieletto, ma le conseguenze dell’invasione del 2003 continuiamo a pagarle.

Sia di consolazione ai sostenitori di chi ha perso che anche il primo mandato di Donald Trump, alla fine, non portò alla catastrofe nucleare. La cosa autorizza a pensare che le numerose promesse elettorali da lui dispensate a piene mani negli ultimi mesi resteranno lettera morta. Pertanto non avremo, nell’ordine: l’espulsione di milioni di immigrati illegali (milioni); il bombardamento missilistico dei quartier generali dei cartelli narcos messicani; l’uso dell’esercito contro la leadership del Partito democratico; la messa di Liz Cheney di fronte ad un fucile spianato. Tutto ciò è molto consolante.

Il fatto è che il Deep State, l’odiosa macchina del potere che una volta i liberal americani chiamavano Establishment ma Trump non può essere d’accordo con loro nemmeno sul vocabolario, garantirà come sempre garantisce una buona percentuale di continuità tra una presidenza e l’altra. Continuità, stabilità, in fondo sopite e troncate come ai tempi del Conte Zio. Pertanto Trump un giorno si prenderà a pacche sulla spalla con Xi Jinping, come ha fatto, e l’indomani aumenterà i dazi alla Cina, come ha fatto, per tornare alla pacca sulla spalla, come ha fatto. Putin avrà un vertice da tenere con lui, magari nella Helsinki che nel frattempo è entrata nella Nato, mentre l’Unione Europea verrà messa tra i lavativi che non vogliono pagare per essere difesi. Poi nulla accadrà. Eppure.

Eppure nel frattempo c’è stata una guerra in Ucraina che ha turbato profondamente gli equilibri internazionali, facendo entrare nelle orecchie degli europei la pulce della costituzione di un esercito continentale. Il Medioriente ha raggiunto un livello di scontro per cui non basteranno gesti come spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. La Cina punta su Taiwan come non mai, la Corea del Nord lancia missili nell’Oceano e soldati all’attacco nel Donbass, il Giappone e la Corea del Sud compiono esercitazioni militari congiunte.

Non è il 2016, questo, e Trump dovrà rendersene conto. Ha vinto due volte grazie a ragionamenti da bar, essendo un vero populista, ma in questo secondo mandato raccoglierà i frutti di quel che ha predicato nel primo e dovrà sciogliere i nodi lasciati insoluti dai Democratici. Vedremo cosa saprà fare e non azzardiamo previsioni.

Quello che scriviamo per lui varrebbe, in buona parte, anche se avesse vinto Kamala Harris, la cui rarefatta consistenza è emersa chiaramente. Non ha lanciato mai un’idea, non ha mostrato mai un progetto. Ha perso anche per questo. Anche con lei l’antico Establishment avrebbe avuto spazio per gestire, tranquillizzare, sopire e troncare. Senza, possibilmente, arrivare nelle settimane post elettorali ad occupazioni di Capitol Hill o a scontri di tribunale.
No, tutto questo pandemonio di uomini con le corna di bisonte sulla testa ce lo siamo risparmiato. E così è chiaro chi sia stato il vero vincitore delle elezioni presidenziali americane del 2024.

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