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Il mini-Concilio del Mediterraneo ecumenico

Le divisioni tra i discepoli di Gesù sono uno scandalo del quale saremo tutti chiamati a rendere conto a Dio”, ripeteva spesso il cardinale australiano Edward Idris Cassidy negli anni della sua presidenza del Pontificio consiglio per la promozione dell' unità dei cristiani. Ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ha partecipato a Bari alla messa celebrata da Papa Francesco in piazza Libertà, a conclusione dell'incontro promosso dalla Cei sul “Mediterraneo frontiera di pace”, che per quattro giorni ha riunito nel capoluogo pugliese i vescovi del Mare nostrum. Dal punto di vista culturale è la sensibilità conciliare il terreno comune tra Bergoglio e Mattarella, dossettiano e cattolico democratico. Riccardo Burigana, docente di storia dell’ecumenismo, direttore del Centro Studi Italiano per l’Ecumenismo San Bernardino di Venezia e autore di un saggio sulla dichiarazione Nostra Aetate, ha ricostruito la complessa redazione della costituzione dogmatica Dei Verbum a partire dall’opera del cardinale Ermenegildo Florit e di padre Umberto Betti.

La parola-chiave che unisce il Vaticano II al “mini-sinodo” mediterraneo di Bari è ecumenismo. Francesco è molto interessato all’ecumenismo, come i suoi predecessori, e condivide con san Giovanni XXIII, che era stato nunzio in Bulgaria, e con Benedetto XVI lo speciale interesse per le Chiese ortodosse. A un Papa polacco, per ragioni storiche che riguardano la Polonia, che si è sempre percepita come baluardo di latinità contro l’espansione ortodossa che partiva dalla Russia, il dialogo con gli ortodossi riusciva oggettivamente meno facile. C’è però una forte continuità con i predecessori quando sentiamo Francesco affermare, e lo ha fatto spesso, che il vero ecumenismo non va confuso con il relativismo e con il sincretismo. Un avvicinamento che ha portato allo storico abbraccio a Cuba tra Francesco e il patriarca di Mosca.

Il nodo fondamentale sono le due ermeneutiche che, diceva Benedetto XVI, hanno litigato fra loro per l’interpretazione del Concilio: ermeneutica della discontinuità e della rottura da una parte, ed ermeneutica della riforma nella continuità dall’altra. Queste ermeneutiche, diceva sempre Benedetto XVI, non si applicano solo al Concilio ma a tutta la vita della Chiesa. Oggi le vediamo all’opera nel modo di leggere Francesco. C’è chi legge la sua “Chiesa povera per i poveri” e riformatrice secondo un’ermeneutica della rottura, come se sancisse un taglio netto e un rifiuto del Magistero dei suoi predecessori. È la lettura che fanno di Francesco sia certi progressisti immaturi, come li ha chiamati lo stesso papa Bergoglio, per applaudirlo in un modo capzioso e improprio, sia i cosiddetti tradizionalisti per denigrarlo e denunciarlo come eretico. Il Pontefice, invece, è molto attento a citare spesso, e con particolare attenzione quando enuncia aspetti che potrebbero sembrare particolarmente innovativi, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che non a caso sono i due autori più citati nell’enciclica Laudato si’.

L’attuazione del Concilio è un aspetto importante del programma di Francesco, ma il suo pontificato presenta anche altri interessanti tratti di radicalismo evangelico che vanno anche oltre il Vaticano II. A questo riguardo, occorre richiamare i temi dell’ ecumenismo e del dialogo interreligioso, della custodia del Creato e dell’ecologia umana, dell’accoglienza degli immigrati e della convivenza interculturale, della collegialità nella Chiesa e dell’apertura verso i divorziati, alla presa di distanza da ogni forma di potere, fino alla non esclusione in assoluto delle proprie dimissioni come pontefice. Si tratta di prospettive che sono legate tra loro dai fondamentali principi dell’inclusione, della comprensione, dell’uguaglianza nella dignità e della misericordia. Partecipando al quinto Convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze nel novembre 2015 Francesco ha dichiarato con forza il suo no ad una Chiesa ossessionata dal potere e ha aggiunto, significativamente, che gli piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti.

Quindi, Francesco non ha certo modificato i principi fondamentali della dottrina della Chiesa, ma ha saputo presentarli non come dogmi lontani dalla vita delle persone, ma come vie per trovare un significato pieno alla propria vita. Quando Giovanni XXIII nella Settimana Santa del 1959, modificò la preghiera del Venerdì Santo pro perfidis Judaeis (per gli Ebrei che non credono) facendo eliminare la parola “perfidis”, non poteva certo immaginare che con quella scelta dava di fatto inizio ad una nuova pagina del cammino ecumenico che avrebbe portato alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965) e all’avvio di rapporti positivi non solo con gli Ebrei, ma con tutte le religioni. Ben presto si crearono le premesse per dar vita ad una nuova stagione dell’ecumenismo. 

È opportuno ricordare il fervore ecumenico del cardinale Agostino Bea, le attività promosse dal Segretariato per l’Unità dei cristiani, l’abbraccio storico di Paolo VI con il patriarca di Costantinopoli Atenagora nel 1964 a Gerusalemme (che è stato ricordato esattamente cinquant’anni dopo dall’abbraccio di papa Francesco e il patriarca Bartolomeo a Istanbul). Durante il pontificato di Giovanni Paolo II si è forse avuta una maggiore attenzione per il dialogo interreligioso che per il cammino ecumenico tra le Chiese cristiane, anche se a questo tema specifico è stata dedicata l’enciclica Ut Unum Sint (1995). Il programma di ogni papa è dato dal Vangelo e dalla sua interpretazione così come si è configurata nella tradizione, non da un Concilio o da un altro. Vivendo in un determinato momento storico il papa è però certamente chiamato a realizzare un evento così importante e significativo come è stato il Vaticano II, opera di tutto l’episcopato mondiale che ne ha approvato i documenti quasi all’unanimità e che tutti i papi hanno preso come punto di riferimento.

Per papa Francesco, che non ha partecipato al Concilio, esso è un dato di fatto che egli dà per acquisito. Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono posti tutti nella linea del Vaticano II, cercando di attuarne le novità. Con la canonizzazione di Giovanni XXIII che aprì il Concilio e di Giovanni Paolo II che l’ha vissuto intensamente, ai quali ha aggiunto la canonizzazione di Paolo VI (che ha chiuso degnamente il Vaticano II e più ha sofferto per farlo realmente recepire), di fatto Francesco ha “santificato” il Concilio nelle figure dei suoi protagonisti e attuatori. Inoltre, per Benedetto XVI non si può parlare di beatificazione perché è ancora vivo, ma la sua fedeltà al Concilio è indubbia e le sue riserve su alcune conseguenze non desiderate del Concilio, come in fatto di liturgia, non modificano una linea di sostanziale fedeltà allo spirito del Concilio, con buona pace di coloro che speravano che con papa Ratzinger la Chiesa facesse, almeno parzialmente, marcia indietro. Ma non si può dire che un papa è più conciliare dell’altro: ciascuno, in questi cinquant’anni, ha portato un suo stile e una sua sensibilità, ma sempre nella scia conciliare. Giovanni Paolo II è stato un grande missionario e un evangelizzatore a livello mondiale, simbolo (anche fisicamente, sinché ha avuto buona salute) di una Chiesa che nello smarrimento del mondo moderno, ha certezze da dare e splende come un faro nella notte, trasformandosi in fiaccola che va a portare luce nei suoi viaggi e nei suoi infiniti contatti. Alla sua grande apertura sui problemi sociali, infatti, ha fatto riscontro una certa rigidità sui problemi familiari e morali, sia per la sua formazione sia per il timore, forse, che aprendo delle brecce in questi campi, franasse poi tutto un edificio morale costruito nei secoli.

La personalità dei papi, come di tutti, è complessa e non è mai di un colore solo. Benedetto XVI ha portato alla Chiesa e al mondo la sua profonda preparazione teologica e di pensatore, cercando di riportare all’essenziale il messaggio evangelico, che talvolta sembra dissolversi nella cultura moderna. Ma la sua immagine è stata spesso travisata: ci sono state condanne, a destra e a sinistra, durante il pontificato di Giovanni Paolo I, ma non con Benedetto XVI, assai più attento al pluralismo del pensiero teologico di oggi e al dibattito teologico che ha bisogno di libertà. Nella pastoralità dell’azione di Francesco e nello sforzo del dialogo con il mondo moderno e anche con i lontani, che alle volte sembrano apprezzarlo più di alcuni più vicini o vicinissimi, che manifestano le stesse paure degli avversari di Gesù che frequentava pubblicani e stranieri e accettava gesti di venerazione da prostitute, quella di Francesco è una Chiesa che si preoccupa più degli altri che di se stessa. In dialogo prima di tutto con i fratelli separati. Più che una novità è la continuazione, con la stessa tenacia, di tutto il movimento ecumenico che il Vaticano II ha benedetto e rafforzato con i suoi documenti. Ne è una conferma il cambio di atteggiamento e di linguaggio verso gli ebrei, verso le Chiese non cattoliche e anche verso i musulmani e i fedeli di altre religioni, riconoscendo “semi del Verbo”, cioè elementi di verità e di bontà, anche nella loro fede. Il mini-Concilio di Bari ne è stata la conferma.

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