La terra dove tutto ebbe inizio: la Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, regione dove la Genesi colloca il giardino dell’Eden; e poi Ur dei Caldei, la città di Abramo, da cui l’anziano patriarca delle religioni monoteiste partì verso la terra promessa. Basterebbero questi pochi cenni di geografia biblica a immaginare l’emozione che un vescovo di Roma, ma come lui ogni cristiano, può provare nel recarsi nei luoghi scelti da Dio, all’inizio dei tempi, per manifestare all’uomo la sua premura e la sua giustizia. Perché l’Iraq è anche questo, anche se, lo sappiamo bene, non è solo questo. La paradisiaca terra dell’Eden è diventata da trent’anni esatti (1991, prima guerra del Golfo) terra infernale di violenza militare, politica, religiosa. Voleva andarci, nell’anno 2000, papa Wojtyla a celebrare il santo giubileo ma non gli fu permesso. Ci prova adesso papa Francesco: “Non si può deludere un popolo due volte”, ha spiegato all’udienza del mercoledì.
Già i nomi e luoghi dell’itinerario del pellegrinaggio fanno tremare le vene nei polsi. Venerdì 5 marzo, Baghdad, messa nella cattedrale siro-cattolica che i terroristi di Al Kaida trasformarono in mattatoio il 31 ottobre 2010, 48 fedeli inermi uccisi, martiri di una delle comunità cristiane più antiche in terra d’Arabia: secondo una tradizione bimillenaria fu l’apostolo Tommaso a portare il Vangelo fin qui. “La nostra chiesa non ha mai conosciuto uno splendore mondano. Sono loro, i martiri di ieri e di oggi, la nostra gloria e la nostra bellezza” ha detto a Fides il patriarca Sako.
Sabato 6 marzo il Papa sarà a Najaf, città sacra degli sciiti, dove lo aspetta il Grande Ayatollah Sayyd Alì Al -Sistani: l’Iraq, primo paese musulmano a maggioranza sciita visitato da Francesco. Dopo Najaf passaggio a Nassiriya (per noi italiani nome di terribile memoria…) lungo la strada per Ur dei Caldei: nel mondo non c’è luogo simbolicamente più adatto per un incontro fraterno con gli esponenti delle altre religioni che riconoscono in Abramo l’origine della storia della salvezza. Dialogo con l’Islam necessario, anche per isolare i violenti e proteggere la minoranza cristiana, più che dimezzata dalle violenze e dalla emigrazione negli ultimi trent’anni.
Dopo Ur, domenica 7 marzo rotta al Nord, tra il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Mossul, altro nome che mette i brividi, capitale per tre anni delle bande nere dell’Isis, i cristiani cacciati dalle loro case, umiliati, costretti ad un esodo biblico. Il papa pregherà per le vittime della guerra; solo a Mosul la battaglia per la liberazione della città nel 2017 lasciò sul terreno 40mila cadaveri.
Raffica di emozioni dunque per il Papa che, primo leader mondiale, riprende a viaggiare dopo il lungo stop della pandemia. Ma anche e soprattutto gioia senza pari per i cristiani iracheni; sono loro che hanno voluto in spes contra spem questo pellegrinaggio, per ricevere consolazione e forza interiore dalla visita del vescovo di Roma. Coscienti dei rischi a cui espongono loro e ancora di più il successore dell’apostolo Pietro: rischi per l’incolumità fisica e rischi di tipo morale, perché in caso di attentati contro la folla innocente non mancheranno quanti faranno pesare sulla coscienza di Francesco questo sangue. Scelte difficili. Cedere al ricatto della violenza, annullare ancora un viaggio papale, avrebbe significato per i fanatici e i terroristi un successo senza pari. Il papa non poteva deludere i figli di san Tommaso nell’antica Mesopotamia. “Questa visita è come un sogno che diventa reale – commenta il patriarca Sako – E noi siamo come dei bambini che si preparano a una festa. Dal più grande fino al più piccolo tra noi”.