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162 anni di unità d’Italia: ecco cosa dobbiamo festeggiare

In fondo, cosa c’è da festeggiare? Il covid non è ancora stato debellato, il ceto medio è impoverito, la guerra è alle porte di casa e gli sbarchi di migranti triplicano. Cos’ha da festeggiare quest’Italia, che oggi ricorda il voto di un Parlamento che non esiste più per l’acclamazione di un Regno fallito ottant’anni fa nel nome di una dinastia distintasi per mediocrità? Nulla, verrebbe da dire nel nichilismo di dozzina che impera nei peggiori bar della provincia.

Invece tutto. Tutto, tutto davvero. Persino i Savoia con la loro mediocrità che li portò, quasi inconsapevoli, a prendere uno stivale bagnato da tre parti e trasformarlo in un Paese unito. Unito, sì: perché la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo del 1861 questo portò, l’unità. Ora, non siamo né patiti del Risorgimento, né patriottardi di maniera. Siamo però coscienti di una serie di ovvietà, talmente evidenti che di solito uno se ne dimentica. Trovammo, quel giorno, il modo di essere non potenza tra le potenze, semmai europei in un’Europa che andava formandosi nello scrollarsi di dosso gli imperi sovranazionali. E mettemmo insieme – tra mille errori, d’accordo, ma un conto è il ramo storto un altro la radice buona – genti che prese una per una sarebbero davvero rimaste relegate ad un ruolo secondario, se non servile. I curdi d’Europa.

A guardarsi indietro vien fuori chiaro che, tra i mille errori summenzionati, ve ne siano di gravissimi. Come gli ebrei dopo il Mar Rosso abbiamo rimpianto la cipolla del Faraone, rinunciando alla libertà. Loro vagarono quarant’anni nel deserto; noi vent’anni soli, ma nel fascismo. Ci tirammo fuori grazie ad una classe politica mai sufficientemente apprezzata, in cui uomini democratici e cristiani fecero da apripista. Scrivemmo così una Costituzione che, beato quel popolo amato da Dio, quando qualcuno ci ha messo di mezzo un referendum popolare è tornato a casa con le penne arruffate. Non proviamoci più, a cambiarla. Lo chiediamo per favore.

Partimmo così, con il cappotto rivoltato di De Gasperi, e finimmo nel G7. Poi nell’Eurozona. Sarà forse più per fortuna che per merito, ma siamo parte della parte più prospera della comunità internazionale. E se c’è un’emergenza o un compito difficile, magari sappiamo riscoprirci anche persone serie. Ma ce ne vergogniamo. In fondo siamo sempre gli stessi: quando scende Carlo VIII prima tutti a fare i machiavelli, a sfruttare l’estraneo per tirare un calcio di nascosto al vicino di casa, ma poi se quello esagera lo aspettiamo nella piana di Fornovo. Grandi cose di raro, buone cose le facciamo molto spesso. E tra le cose che ci vergogniamo di ammettere c’è anche questa: ci piace stare insieme. Chi da trent’anni parla di secessione o simili, da trent’anni ben poco ottiene. Pensiamoci rima di avventurarci nell’autonomia differenziata. Perché questo siamo: infingardi, bugiardi, mestatori, furbastri, provinciali, vagamente imbroglioni, talvolta fedifraghi. Ma poi ci guardiamo intorni, magari facendo un Erasmus, e ci accorgiamo che siamo tali e quali agli altri. No, correggiamoci: gli altri amano la Nazione, amano la Patria.

Noi invece amiamo il nostro Paese, che è come dire qualcosa di più modesto, ma magari anche qualcosa di più profondo, di più banale ma anche di più familiare. Insomma, casa nostra. E allora per questo nuovo anniversario, che più se ne accumulano più sotto sotto si è contenti come in un matrimonio che non ha più nemmeno il diamante da festeggiare, perché è andato oltre, facciamoci i complimenti, dopo aver visto tutti i nostri difetti e i nostri problemi. E sotto sotto, ancora una volta, vergognandoci un po’ perché i sentimenti buoni son difficili da ammettere, diciamoci poche parole. Queste: auguri, Italia. Ti meriti ogni bene.

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