Certo, oggi, e non solo in Italia, pensare a come saranno i centri urbani dopo il Coronavirus non è facile. Eppure, è quanto mai necessario iniziare a immaginare di dover riprogettare gli spazi, dalla scala cittadina fino a quella domestica. Un compito per il quale saranno necessari concretezza ma anche visione.
Ci piacerà ancora vivere nelle grandi metropoli? E come?
“Nessuna pandemia o peste o catastrofe naturale ha mai ucciso le città, né il bisogno dell’umanità di vivere e lavorare in agglomerati urbani. Non ci è riuscita la peste nera del XIV secolo, né l’epidemia di colera di Londra del 1850, né l’influenza spagnola del 1918 che ha falciato decine di milioni di persone in tutto il mondo. Questo perché la concentrazione delle persone nelle metropoli e le attività economiche che fungono da motore per l’innovazione e la crescita sono troppo forti”. Così inizia un articolo firmato dai due architetti e professori: Richard Florida (Rotman School of Management, School of Cities dell’Università di Toronto e Schack Institute of Real Estate dell’Università di New York) e Steven Pedigo (Lyndon B. Johnson School of Public Affairs – Università del Texas ad Austin), pubblicato su “Brookings”.
“Non è la prima volta che succede” – puntualizzano i due – “da tempo immemorabile, le città sono epicentri di malattie trasmissibili”.
Stefano Boeri, con il suo studio di architetti, ha ideato un manuale di prossemica cittadina. Nella sua visione, la città del futuro sopravvive se si protende all’esterno. Nelle piazze, nelle strade liberate dalle automobili, dove “l’aria può circolare e il rischio di contagio è minore”, dovrebbero spostarsi le attività che prima svolgevamo al chiuso: teatri, cinema, locali e negozi “che dovrebbero proiettarsi fuori, con dehors e spazi riscaldati”.
Va detto che il Covid-19 non ha provocato un cambio di passo in tal senso, ma lo ha semplicemente accelerato, in quanto era già un comune sentire il bisogno di ridurre il ritmo forsennato. La sindaca di Parigi, Anna Hildago, aveva già lanciato, in gennaio, la sua visione di Ville du Quart d’Heure, ossia la Città in 15 minuti. “Riscoprire i quartieri, gli spazi di prossimità. Avere tutto ciò di cui il cittadino ha bisogno a portata di 15 minuti: dai servizi pubblici agli spazi culturali ai negozi di alimentari” spiega Pierfrancesco Maran, assessore all’Urbanistica, Agricoltura e Verde del Comune di Milano, città che ha abbracciato questa visione.
La metropoli del futuro deve guardare al passato, riscoprire le aree pedonali, i rapporti di vicinato, gli acquisti nei negozi sotto casa, i giochi dei bambini per strada, il camminare e l’andare in bicicletta. Disincentivare, quindi l’uso dell’auto favorendo la mobilità dolce. “È ora che lo spazio pubblico torni a essere di importanza vitale” dice l’architetta Benedetta Tagliabue dello studio Miralles Tagliabue Embt, aggiungendo che “le città anche densamente popolate, devono avere zone pedonali dove vivere la socialità”.
E le abitazioni?
I nuovi stili di vita riguardano anche le abitazioni. Lo smart working diventerà sempre più una realtà, affiancherà nel futuro il lavoro fuori casa e si ripenseranno gli uffici come spazi in cui incontrarsi periodicamente. Si privilegeranno case più grandi, con una stanza in più per lavorare. Quindi, ci sposteremo di meno e riscopriremo la vita di quartiere. Helle Søholt, CEO di Gehl, leader mondiale nella progettazione urbana incentrata sulle persone con studi a Copenhagen, New York e San Francisco, sottolinea anche l’importanza dell’housing nelle grandi città, evidenziando come le case-ballatoio della Milano Anni Sessanta siano un buon esempio di condivisione di spazi, un bene per la salute e la sostenibilità delle comunità future.