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Le radici dell’eterno conflitto tra Cina e Taiwan

L'intervista di Interris.it a Marco Respinti, giornalista professionista e direttore responsabile di www.bitterwinter.org

Il dito sul bottone è quello di Xi Jinping. A mio parere, credo che questo non avverrà, non penso che il presidente cinese sia così folle da attaccare Taiwan, ma mostra tratti di lucida follia, nel senso ideologico del termine. D’altronde, fino al 24 febbraio nessuno pensava che le minacce di Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina sarebbero arrivate a compiersi, ma poi tutti si sono dovuti ricredere. Xi Jinping potrebbe fare la stessa identica cosa“. E’ quanto ha affermato Marco Respinti, giornalista professionista e direttore responsabile di www.bitterwinter.org, intervistato da Interris.it sulla questione Cina-Taiwan.

Cosa è successo

Tutto è iniziato con una missione della speaker della Camera dei rappresentanti Usa, Nancy Pelosi, arrivata sull’isola per affermare il sostegno americano alla democrazia taiwanese. Ma la sua visita storica rischia di far saltare equilibri molto fragili che regolano le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Appena la Pelosi ha lasciato Taiwan, per dimostrare la sua contrarietà o forse come una sorta di ultimo avvertimento per tutto l’Occidente, la Cina ha dato il via a pesanti esercitazioni militari nello Stretto di Taiwan, creando non poca tensione. Nervosismo che è cresciuto ulteriormente quando, a quasi due settimane dalla visita della speaker della Camera, sull’ex isola di Formosa è arrivata un’altra delegazione statunitense guidata dal senatore democratico Ed Markey. Navi da guerra e caccia cinesi sono entrati nuovamente nello Stretto di Taiwan, e 15 aerei gabbi attraversato la linea mediana, una sorta di area cuscinetto non ufficiale che Pechino ha detto di aver cancellato.

L’intervista

Ma la diatriba tra Taiwan e Cina, fino ad ora si sono mostrati solo i muscoli senza passare all’azione, ha radici profonde, che affondano nel tempo e nella storia. Per approfondire l’argomento, Interris.it ha intervistato Marco Respinti, giornalista professionista e direttore responsabile di www.bitterwinter.org.

Taiwan e Cina, dove affondano le radici dell’eterno conflitto?

“La diatriba è antica almeno quanto la Cina Continentale, ossia dal 1 ottobre 1949 quando il Partito comunista cinese sale al potere dopo la guerra civile. Un conflitto che ha insanguinato il Paese e messo a confronto il Partito Comunista e il Partito nazionalista che, dopo aver perso, si ritira su quella che era conosciuta come l’Isola di Formosa, ossia Taiwan, e dà vita alla Repubblica cinese. Il problema inizia qui, la Cina comunista non riconosce questa ‘altra Cina’ e il confronto attraversa tutta la storia recente, la Guerra fredda e arriva fino ai nostri giorni. Taiwan da sempre è un alleato dell’Occidente, quello che una volta veniva chiamato ‘mondo libero’, dall’altra parte la Cina continentale che ha fatto parte del blocco comunista.

Taiwan è davvero “un’isola felice” come appare?

“Taiwan è stata vista, pur con tutti i suoi enormi limiti, come un ‘baluardo della democrazia’ di tipo Occidentale in una zona calda e di totalitarismi, siamo nel sud est dell’Estremo Oriente: oltre al grande colosso cinese, troviamo la Corea del Nord, l’Indocina, Vietnam, Laos e Cambogia. Taiwan viene considerata come l’eccezione rispetto a questa regola. Questo con tutti limiti del governo del Guomindang che è forte, autoritario e con tutti i problemi, di cui come direttore responsabile di Bitter Winter mi occupo, legati alla libertà religiosa: Taiwan ha forti limiti sulla tolleranza religiosa. Ancora oggi, ci sono molti gruppi che vengono repressi, non facciamone un paradiso”.

Può spiegarci in cosa consiste la ‘One China policy’?

“Pechino e Taipei non si riconoscono reciprocamente e quindi la Cina persegue quella che ha nominato la ‘One China policy’: esiste una sola Cina, quella che ha come capitale Pechino e al governo il Partito comunista cinese. L’obiettivo è risolvere la diatriba con Taiwan che viene considerato un problema di politica interna. Gli stranieri, in primis gli Stati Uniti, non dovrebbero occuparsene e, secondo questa politica, la Cina prima o poi risolverà il problema. Una politica non molto diversa da quella che la Cina utilizza con Hong Kong. La ‘One China policy’ non è mai diventata una via di fatto perché attaccare Taiwan significherebbe scontrarsi direttamente con gli Stati Uniti e con tutto il mondo che non risponde al blocco comunista. Ultimamente la Cina è tornata a minacciare e a svolgere le esercitazioni militari con più forza”.

Prima della visita sull’isola di Taiwan della speaker della Camera statunitense, Nancy Pelosi, il presidente cinese Xi Jinping aveva detto al suo omologo Joe Biden che “chi gioca con il fuoco si brucia”. Se quelle che fino ad oggi sono apparse solo come minacce dovessero degenerare in un attacco della Cina a Taiwan, chi si brucerebbe?

“Si brucerebbero tutti. Perché è evidente che il conflitto non rimarrebbe regionale. Xi Jinping ha fatto quell’affermazione perché ha avviato una politica molto dura sia all’interno sia all’esterno e ha spinto il piede sull’acceleratore sul piano repressivo e aggressivo. Il presidente cinese usa toni forti anche all’esterno del suo Paese, lo ha fatto anche con Donald Trump ma lui aveva un modo di gestire la politica estera con il quale è riuscito a tenere il presidente cinese al suo posto. Biden ha uno stile diverso e Xi Jinping si è potuto permettere affermazioni forti sia prima sia dopo il viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. Se Xi Jinping dovesse passare alle vie di fatto si brucerebbero tutti, in primis i taiwanesi, poi anche la Cina perché nei suoi confronti si scatenerebbe una reazione analoga, forse anche più forte, di quella contro la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. La Cina, pur essendo molto potente economicamente, ha bisogno degli altri Paesi”.

Pensa che sia possibile che la Cina attacchi Taiwan?

“Il dito sul bottone è quello di Xi Jinping. A mio parere, credo che questo non avverrà, non penso che il presidente cinese sia così folle da attaccare Taiwan, ma mostra tratti di lucida follia, nel senso ideologico del termine. D’altronde, fino al 24 febbraio nessuno pensava che le minacce di Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina sarebbero arrivate a compiersi, ma poi tutti si sono dovuti ricredere. Xi Jinping potrebbe fare la stessa identica cosa”.

Lo Stretto di Taiwan è un passaggio strategico per il commercio di Cina, Giappone, Corea del Sud, ma in realtà anche per il resto del mondo. se dovesse scoppiare il conflitto, a cosa andremmo incontro a livello economico e commerciale? 

“Una chiusura o una militarizzazione del canale comporterebbe dei ritardi sul piano industriale ed economico molto grande. Aggirare l’ostacolo, in questo caso proprio fisicamente, peserebbe sulle casse di molti Paesi, soprattutto di quelli liberi e democratici. I Paesi totalitari non si pongono molti scrupoli nel far stringere la cinghia alle popolazioni, in Occidente se aumenta un poco la benzina o il prezzo del gas cadono i governi”.

Dal punto di vista umanitario, invece, che scenario si potrebbe immaginare?

“Mi ha colpito molto la visita al museo  della Guerra di Corea a Seul. Mi ha impressionato una piccola zona dove proiettano un video che mostra cosa potrebbe accadere in caso di attacco con gas o nucleare. Inoltre, il visitatore può provare a indossare una maschera antigas. Ho visto delle scolaresche sedersi e provare queste maschere: vedere i bambini che le indossano fa venire i brividi. Se provo a immaginare la Cina comunista che decide di attaccare Taiwan, la prima cosa che mi viene in mente è un gigante colossale e mastodontico, che scaglia la sua forza militare sui taiwanesi. Credo che si tradurrebbe in un bagno di sangue, Taiwan non starà fermo a subire, ma il confronto tra i due significherebbe il massacro della popolazione civile. I sopravvissuti fuggirebbero nei paesi vicini. Per tutti questi motivi non credo sia molto semplice per Xi Jinping decidere di attaccare Taiwan, perché la risposta dell’Occidente non sarebbe morbida e l’escalation – anche nel senso del confronto con altre potenze di un’altra area – sarebbe più rapida rispetto a quanto accaduto in seguito all’invasione russa in Ucraina dove l’Occidente per una serie di motivi non è potuto e non ha voluto intervenire. Se dovesse accadere, credo che sarebbe una ‘riedizione’ della guerra di Corea ma con le armi e le tecnologie odierne”.

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