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Pari senza ultimi: come si sviluppa la “peer education”

Una nuova ottica pedagogica, in cui lo studente è il vero protagonista dell’insegnamento e attorno a lui orbita il resto del "mondo della scuola"

La peer education, altrimenti conosciuta come “educazione fra pari”, è una metodologia scolastica, oggi sempre più diffusa, non solo in Italia, rivolta a facilitare le capacità di apprendimento e stimolare l’impegno e l’autostima degli studenti.

La strategia della peer education si fonda sul principio essenziale della stessa età (la cosiddetta same age) e sulle pari condizioni (e status) dei soggetti coinvolti, costituendo uno dei metodi di apprendimento “a mediazione sociale”. Si distingue da altre metodologie per la similarità che viene percepita dai partecipanti, frequentanti la stessa classe, in cui nessuno è professore dell’altro e, in un clima di grande empatia, nel confronto e arricchimento reciproco, nella condivisione di idee, nell’inclusione assoluta, il sapere ha una trasmissione esclusivamente orizzontale, escludendo forme di tutoraggio.

È rivolta, soprattutto, agli adolescenti per premiare stili di comportamento equilibrati che condannino gli eccessi e per intraprendere progetti condivisi, anche per media e social.

Sulla scorta di quel puerocentrismo avviato dal noto psicologo John Dewey, che pone il bambino al centro del processo formativo, la peer education permette la collaborazione fra gli studenti affinché la competenza dell’uno sia trasmessa all’altro, in uno scambio osmotico e reciproco che beneficia entrambi. Ogni studente acquista una nuova consapevolezza dell’apprendimento e lavora per trovare il messaggio migliore con il quale veicolare i contenuti e le life skills (le competenze e le abilità quotidiane).

In questa nuova ottica pedagogica, in cui lo studente è il vero protagonista dell’insegnamento e attorno a lui orbita il resto, pur fondamentale, del “mondo scuola”, tra le varie “metodologie didattiche attive” si inserisce la peer education. In questa strategia, oltre alla formazione didattica, il ruolo dei ragazzi è volto soprattutto ad accrescere la socializzazione e a correggere la presenza o la latenza di comportamenti devianti, spesso dovuti a uno stato psicofisico di scarso benessere. Lo svolgimento procede in modo collettivo sugli stessi argomenti, a differenza di un’altra strategia attiva simile, quella del cooperative learning, in cui i singoli gruppi affrontano problemi diversi. Si differenzia anche dal peer tutoring poiché non prevede la presenza di una figura diversa: genitore, amico, studente più “anziano” o insegnante di alcun tipo.

Tra i diversi libri in commercio sull’argomento, vi è quello pubblicato nel 2011 da Carocci Editore, dal titolo L’adolescenza come risorsa. Una guida operativa alla peer education di Gianluigi Di Cesare e Rosalia Giammetta.

A distanza di secoli, tornano attuali le parole del politico e “formatore” romano Marco Porcio Catone “Non vergognarti di volere che ti sia insegnato ciò che non sai. Saper qualcosa è fonte di lode, mentre è una colpa non voler imparare nulla“.

Nel rapporto annuale 2021 dell’Istat, pubblicato il 9 luglio scorso, visibile al link https://www.istat.it/it/files//2021/07/Pillole_Rapporto_Annuale_2021.pdf, si possono cogliere degli estratti riguardanti il mondo della scuola “Il nostro Paese si colloca al penultimo posto nella graduatoria Ue27 per quota di laureati tra i giovani 30-34enni (27,8% contro 40% della media europea), anche se il progresso nell’ultimo decennio è stato in media più rapido. Il gap con il resto d’Europa riguarda anche le donne (34,3% di laureate in Italia contro 46,2% della Ue27), che pure hanno una maggiore probabilità di laurearsi rispetto agli uomini (21,4% di laureati in Italia, ultima posizione, contro 35,7%). […] Nel 2020, il 13,1% dei giovani di 18-24 anni ha abbandonato precocemente gli studi avendo raggiunto al massimo la licenza media (contro 10,1% in Ue27). L’incidenza degli abbandoni si è ridotta notevolmente (era quasi il 20% nel 2008), in particolare nel Mezzogiorno, dove tuttavia è ancora al 16,3% contro circa l’11% del Centro-nord. […] Nel 2020 sono 2 milioni e 100mila i giovani di 15-29 anni non più inseriti in un percorso scolastico o formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa (i cosiddetti NEET, Neither in Employment nor in Education and Training), pari al 23,3% dei giovani di questa fascia di età in Italia (in aumento rispetto al 22,1% del 2019) e a circa un quinto del totale dei NEET europei. […] Tra aprile e giugno 2020, l’8% degli iscritti (600mila studenti) delle scuole primarie e secondarie non ha partecipato alle video lezioni, con un minimo di esclusi al Centro (5%) e un massimo nel Mezzogiorno (9%). Più alta la quota di esclusi nella scuola primaria (12%), più bassa nella secondaria di primo (5%) e secondo grado (6%). […] Particolarmente critica è la situazione di 800mila studenti (fino a 14 anni): circa 600mila non hanno seguito lezioni online tra marzo e giugno 2020 (e di questi, la metà anche senza aver ricevuto compiti e 156mila soltanto qualche volta). A questi si aggiungono 205mila che hanno fatto lezioni con una parte minoritaria degli insegnanti e con compiti assegnati qualche volta o mai”.

Quel che può sembrare difficile per un ragazzo può risultare, invece, più semplice per un altro (viste anche le diverse competenze e attitudini cognitive) e questo rende ottimale ogni reciproco contributo.

Don Milani, antesignano di tale nuova metodologia scolastica, amava dire “È solo la lingua che rende uguali. Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui.

L’applicazione della peer education è sostanzialmente di tipo scolastico ma può essere utilizzata anche in altri contesti sociali, religiosi, sportivi e ludici.

In tale collaborazione, tutti i soggetti sono responsabilizzati nel progetto, stimolano la condivisione e le proprie abilità di comprensione e di apertura (spiegazione) verso il prossimo, alimentando un dialogo molto costruttivo e tarato sugli stessi codici.

I ruoli sono continuamente alternati e condivisi ed è la fisiologia del gruppo stesso che smonta eventuali derive di tipo autoritario o da “primo della classe”.

La spontaneità che contraddistingue tale scambio di informazioni rappresenta un altro punto di forza.

La locuzione inglese rende, come al solito, l’argomento più affascinante ma si tratta di un significato e di un metodo praticato già nel passato. Va detto che l’applicazione sistematica e scientifica dei giorni nostri supera le casistiche di genere più occasionale e limitato nel tempo che si vivevano, per chi è un po’ più maturo negli anni, nella classica ricerca di gruppo con l’enciclopedia alla mano. L’obiettivo, inoltre, è quello di fornire efficaci relazioni umane non limitate esclusivamente alla didattica.

Il tutto si inserisce anche in un più ampio progetto di “media educazione” e di recupero dei valori, in particolare azzerando i “presupposti” del bullismo.

Nell’epoca contrassegnata dai social, dal telefonino, da computer e tv, è importante veicolare, tra gli stessi coetanei, i messaggi più nobili, limitando, o bollando come falsi, quelli che rovinano tanti giovani e li rendono prede di mostri senza scrupoli, dalla pedofilia al bullismo, alle droghe, al fumo, all’alcol, alla ludopatia. Ciò dimostra come l’essenza di questa nuova metodologia sia quella di veicolare conoscenza, valori e socialità nell’ambito didattico pur rivolgendo l’attenzione a tutti gli altri fenomeni.

“Pari senza ultimi”: questa potrebbe essere una corretta definizione dei vari progetti della peer education: una strategia per tirar fuori, autonomamente, il proprio potenziale, accrescere stima e risorse sino a rendere il soggetto pienamente incluso nei progetti di vita, di studio e lavoro, senza discriminazioni, con la consapevolezza di poter scegliere strade lastricate di valori.

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