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Joseph Ratzinger, nell’alto dei cieli

Le maniche di una maglia nera, da quattro soldi, spuntano sotto la solenne tunica bianca, appena indossata: la prima immagine dopo l'elezione, il 19 aprile 2005. Uomo da sempre poco interessato al suo look mediatico; timido e perfino impacciato, a volte. Ma tutto ciò che poteva sembrare sbagliato nel tempo dell'apparenza, me lo rendeva simpatico e degno di stima; fin dal primo incontro nel lontano 1986, sospesi sopra l'Oceano

Il primo incontro con il cardinale Joseph Ratzinger avvenne nell’alto dei cieli. In senso letterale. Eravamo a circa diecimila metri d’altezza, sotto di noi uno strato di nubi così denso che sembrava possibile poggiarci i piedi, come nella Madonna Sistina di Raffaello. Sotto le nubi, molto più in giù, stava l’Oceano Atlantico, immobile e immenso. Era il 1986. Ricordo anche la data, 18 aprile, perché intervistare il famoso e controverso “Prefetto della Fede”, a quel tempo era cosa memorabile. Il direttore del mensile 30Giorni, Alver Metalli, aveva organizzato la cosa per bene. Siccome l’obiezione del cardinale era che se diceva di sì a un solo giornale gli altri si risentivano, la nostra intervista sarebbe apparsa come frutto di una circostanza casuale: un giornalista del mensile cattolico si era trovato casualmente sullo stesso volo Toronto-Roma su cui volava Ratzinger e una conversazione informale aveva preso poi la forma di una vera intervista. Così avvenne dunque, nell’alto dei cieli.

Il cardinale bavarese, a quel tempo capo dell’ex Sant’Uffizio, era seduto nelle prime file del Boeing Alitalia da poco decollato dall’aeroporto di Toronto, in Canada, dove era stato invitato a tenere una serie di conferenze. Si volava ormai ad alta quota quando l’allora segretario del cardinale, don Josef Clemens, si alzò e mi cercò con lo sguardo nelle file più indietro facendo cenno di raggiungerlo, mentre liberava il suo posto accanto a Ratzinger.

Il “panzer kardinal”, il cardinale carrarmato – come lo chiamava graziosamente la stampa tedesca – si rivelò in realtà affabile e gentile. Percepivo la sua timidezza. Ma anche la determinazione con cui, al di là dei toni pacati, sosteneva le sue convinzioni: non appariva per nulla intimorito e nemmeno angosciato dalle critiche asperrime che gli piovevano regolarmente addosso. Si cominciò con le domande sulla teologia della liberazione e sul dissenso circa la dottrina morale cattolica. Erano i temi del momento, nel dibattito che agitava il mondo ecclesiale. I temi concordati. Ma non potevo ignorare i venti di guerra che stavano incupendo l’attualità internazionale: pochi giorni prima, il 14 aprile, mentre Ratzinger teneva le sue dotte conferenze in Canada, i jet americani avevano bombardato Tripoli. Un atto di rappresaglia contro l’attentato in una discoteca di Berlino Ovest la cui responsabilità era stata attribuita alla Libia. Obiettivo del raid americano era l’eliminazione di Gheddafi ma a morire furono solo una sessantina di persone innocenti, tra cui una bambina di 6 anni, forse adottata dal dittatore libico. La mattina successiva all’attacco, per ritorsione, Gheddafi ordinò il lancio di due missili Scud che dovevano colpire una installazione militare della Nato nell’isola di Lampedusa ma fortunatamente finirono in mare senza provocare alcun danno. La tensione era alle stelle e si temeva un’escalation militare. Ratzinger con spirito preveggente mi disse che vedeva in queste scintille di guerra fra l’America di Reagan e la Libia di Gheddafi l’affermarsi nella scena globale di due nuove ed opposte correnti religiose e politiche: da un lato il “fondamentalismo islamico”, dall’altro un “fondamentalismo nordamericano”.

Era il 1986, mancavano quindici anni alla strage delle Torri gemelle, col suo seguito tremendo di guerre “democratiche” e barbari attentati terroristici. Due fondamentalismi in lotta tra loro, eppure, secondo Ratzinger, con alcuni tratti comuni: “C’è in tutto ciò qualcosa di tragico, quando si osserva che da una parte i due fondamentalismi hanno una radice comune: la difesa dei valori insiti nelle ‘fondamentali’ nozioni morali dell’umanità, ma che d’altra parte essi si combattono l’un l’altro in modo militante, poiché identificano questi valori con un passato determinato. Si dovrebbe perciò separare il grido della coscienza, che è comune, dal sogno del proprio passato, ritenuto il solo valido, e così superare anche l’elemento di violenza” (30Giorni, maggio 1986, pp 8-17).

 

Ho intervistato numerose altre volte Ratzinger. Sempre mi ha colpito la lucidità delle sue analisi. Mi faceva tenerezza la sua timidezza (forse perché anche io sono timido), mi divertivano i suoi modi a volte impacciati e quell’aria a volte da professore tra le nuvole. Quando nel 1996 mi vide per la prima volta col microfono del tg2 in mano mi chiese con candida sorpresa come mi trovavo, io cattolico, nel “tg laico e socialista di Craxi”. Lo informai – non riuscendo a trattenere un sorriso – che Craxi era da un po’ di tempo in esilio in Tunisia. In alcune occasioni ci sorprese, noi giornalisti, sfoderando un raffinato senso dello humor. Quando nel 1997 il cardinale presentò a Roma il libro autobiografico “La mia vita” (ed. San Paolo) un giornalista gli fece notare che sembrava strano che nel racconto degli anni dell’adolescenza nemmeno una riga fosse spesa per raccontare di un innamoramento, sia pure platonico, esperienza tanto comune nei ragazzi di tutto il mondo. Lui rispose serafico che l’editore aveva stabilito un limite severo di battute per il suo manoscritto e “quindi nel racconto ho dovuto tralasciare diversi particolari”. Una sonora risata accolse la sua risposta mentre qualcuno ancora si interrogava se Ratzinger avesse davvero inteso fare una battuta o stesse parlando seriamente.

’appellativo più famoso glielo affibbiò Il Manifesto il giorno della elezione a Papa: “Il pastore tedesco”. L’allora direttore Gabriele Polo mi ha raccontato che in realtà stavano per andare in stampa con un altro titolo di copertina, “Papa nero”, molto più pesante e offensivo: giocava sull’attesa mediatica di un papa africano e nello stesso tempo sulla fama di uomo di “destra” del nuovo Papa. Poi dalla redazione di Liberazione, organo di Rifondazione comunista, un giornalista amico confidò a Polo di aver proposto un titolo che però era stato bocciato come sconveniente dal suo giornale. Era, appunto, “Pastore tedesco”: Gabriele Polo non esitò un attimo, smontò la prima pagina, cestinò il vecchio titolo e lo sostituì con quello bocciato da Liberazione. Ebbe molto successo: con supposta ironia presentava Benedetto XVI come un guardiano implacabile e combattivo dell’ortodossia cattolica. Vero, Ratzinger come ogni buon papa sentiva suo dovere custodire integro il “patrimonio della fede”. Ma al vero non corrispondeva l’immagine di un cane da guardia dell’ortodossia pronto ad azzannare senza pietà eretici, scismatici e infedeli. Sapevo per esperienza personale che il nuovo successore dell’apostolo Pietro era uomo mite, capace di gesti di grande umanità, da vero “pastore” di anime: conservo ancora un biglietto privato che mi scrisse nel 1997, quando morì mia moglie Paola, parole di grande fede e di speciale delicatezza umana.

Era figlio di un gendarme, in servizio al tempo di Hitler. In questo dato biografico qualcuno trovò la conferma di una vocazione autoritaria iscritta nel dna familiare del papa tedesco. Ma il babbo gendarme, in realtà, non sopportava Hitler e quando poteva avvisava del pericolo imminente le persone che rischiavano l’arresto per motivi politici. Fu pubblicata anche una foto del giovane Joseph in abiti sacerdotali con il braccio destro alzato, come se stesso facendo il saluto nazista; prova, si disse, delle sue simpatie per Hitler. Ma era una fake o meglio la foto era autentica ma si trattava di un dettaglio isolato maliziosamente: in realtà nella foto intera si sarebbero visti i due fratelli Ratzinger, consacrati sacerdoti nello stesso giorno, mentre alzavano entrambe le braccia al cielo per benedire i fedeli.

Il 18 dicembre 2011 Benedetto XVI visitò i detenuti nel carcere di Rebibbia a Roma. Uno di loro, Federico, malato di Aids, ateo e anarchico, era stato scelto per rivolgere una delle domande al Papa. Mi confidò più tardi: “Lo immaginavo gelido e distaccato. Ero convinto che mai ci avrebbe stretto la mano, specialmente a noi malati del reparto infermeria, invece si fermò e non ebbe timore di toccarci”. Nella sua domanda al Papa Federico parlò con amarezza della “ferocia” con la quale i detenuti erano visti da chi stava dall’altra parte delle sbarre. Benedetto XVI lo sorprese ancora: rispose a braccio, che sì, era così, purtroppo… ma quasi a volerlo consolare aggiunse che a volte “anche del Papa parlano in modo feroce e… tuttavia andiamo avanti”. Federico cambiò giudizio su Ratzinger e quando il “pastore tedesco” celebrò il suo ultimo Angelus da papa il detenuto chiese al magistrato il permesso di uscire dal carcere per essere anche lui tra la folla dei fedeli a San Pietro che salutavano per l’ultima volta in pubblico Benedetto XVI.

Durante gli otto anni di pontificato facevano notizia, certo, e trovavano ampia eco nei media i suoi intransigenti non possumus contro l’aborto, i matrimoni gay, le teorie del gender. Lui la chiamava la “dittatura del relativismo”. Ma a me colpiva soprattutto la profondità spirituale delle sue catechesi. Aveva una conoscenza straordinaria dei pensatori cristiani dei primi secoli dopo Cristo, i ‘padri della Chiesa”, e sapeva distillare le loro riflessioni in modalità gustabile anche dal semplice fedele. Ricordo una memorabile catechesi del mercoledì tutta dedicata a Efrem il Siro, poeta e teologo vissuto intorno al quarto secolo dopo Cristo, sconosciuto a pressoché tutto l’auditorio, compreso il sottoscritto. Ma quando il Papa iniziò a citare i versi di alcuni suoi inni alla Vergine tutti rimasero incantati: “Il Signore venne in lei per farsi servo. Il Verbo venne in lei per tacere nel suo seno. Il fulmine venne in lei per non fare rumore alcuno…”.

Non era un esercizio di erudizione teologica. Era far godere tutti, anche il meno istruito fra i fedeli, di una ricchezza di fede e di poesia cristiana, altrimenti sepolta nella storia.

Alcune sue “lezioni” incuriosivano persino Franco Trifoni, l’operatore Rai che di solito mi accompagnava nelle uscite in Vaticano per la Rai: sebbene uomo di formazione laica, più volte, prima di smontare dal servizio mi chiedeva la cortesia di stampargli il testo della catechesi (“a casa voglio rileggerla con calma”).

Il Foglio degli “atei devoti” aveva dedicato a Ratzinger paginate piene di ammirazione – come campione di un cattolicesimo muscolare che non si lasciava ingabbiare negli schemi del politicamente corretto. Stima in gran parte ricambiata. Però, poi, quando esplose lo scandalo dei preti pedofili, l’Elefantino prese a punzecchiarlo: si aspettava da uno ‘tosto’ come lui la denuncia di un “complotto” dei media liberal per mettere in ginocchio la Chiesa cattolica. Invece Ratzinger si mise in ginocchio, davvero, ma non in segno di resa al potere mondano: come una invocazione di vergogna e di perdono a Dio. Allora presero a chiamarlo il “papa penitenziale” e cominciarono a sussurrare che al soglio di Pietro c’era bisogno di un pontefice più energico. Benedetto come sempre non si curava delle critiche e durante il viaggio in Portogallo, nel 2010, rispondendo alla domanda di un giornalista disse che “la più grande persecuzione della Chiesa non viene mai da fuori, dai nemici, ma dai peccati nella Chiesa…”. La piaga degli abusi chiedeva non lamenti o accuse ai giornali ma piuttosto “penitenza e purificazione”.

Ho avuto modo di vederlo da vicino, salutarlo e scambiare alcune parole con lui il 30 gennaio 2013. Appena 11 giorni prima della sua rinuncia. L’occasione fu la consegna di una copia del documentario “Benedetto XVI, ritratto inedito” realizzato per Tg2dossier. Seppi poi che lo guardò in compagnia del fratello Georg, e gli piacque molto. Era piaciuto anche al cardinale Bergoglio perché, mi disse, raccontava Ratzinger in modo diverso, come “il papa della umiltà e della mitezza”. Mentre altri, di Benedetto XVI, prendevano solo la rigidità dottrinale e le battaglie etico-politiche, non rendendogli forse un buon servizio.

Avevo sempre ritenuto possibile che Benedetto si dimettesse, qualora avesse sentito “di non avere più le energie fisiche e spirituali necessarie per governare la Chiesa”. Lo aveva detto con molta chiarezza lui stesso, nel libro intervista con Peter Seewald, Luce del Mondo, pubblicato tre anni prima. Ma nessuno il 30 gennaio 2013 immaginava che la decisione fosse così imminente. Il breve incontro col Papa avvenne nel ‘baciamano’ alla conclusione dell’udienza generale del mercoledì, nell’Aula Paolo VI. Lo trovai tanto invecchiato, stanchissimo, eppure sereno. Nel filmato del Centro televisivo vaticano mi rivedo mentre gli stringo la mano e parlo, parlo… Volevo dirgli tante cose, ricordo con certezza solo che gli raccontai di Federico, il detenuto di Rebibbia rimasto sorpreso dalla sua umanità. Con gli occhietti piccoli piccoli Joseph Ratzinger ascoltava e sorrideva, diceva soltanto “grazie, grazie…”. Aveva già preso la sua decisione ma solo lui e pochissimi altri conoscevano le sue segrete intenzioni che avrebbe reso note pochi giorni dopo, l’11 febbraio 2013, stupendo il mondo.

I discorsi secondo me più belli e coinvolgenti li ha pronunciati in quel tempo sospeso tra l’annuncio in latino della rinuncia e la fine effettiva del pontificato, il 28 febbraio sera, dopo il trasferimento in elicottero da San Pietro a Castel Gandolfo. Ribadì in diverse occasioni di aver deciso liberamente “per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza”. Nel cuore di fedeli (e infedeli) arrivò come mai prima il sentimento di una umiltà sincera e di una fede pura, che metteva al primo posto non la sua persona ma Colui di cui anche i papi sono solo servitori e poveri testimoni. Ero in collegamento live per il tg e feci una gran fatica a non commuovermi quando il 13 febbraio, nel primo incontro con i fedeli dopo l’annuncio delle dimissioni lo sentii pronunciare queste parole: “Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura”.

L’anno precedente, nel parco di Bresso, all’incontro mondiale delle famiglie che si tenne a Milano, una bambina vietnamita gli aveva chiesto di raccontare qualcosa della sua infanzia in famiglia. Lui così riservato si lasciò andare a confidenze intime e inedite. Raccontò di come tutta la famiglia, amante della musica, nei giorni di festa cantava insieme; col babbo che suonava la cetra e il fratello maggiore che già componeva dei brani che eseguivano tutti insieme. E poi le passeggiate nel bosco, i giochi, la messa e il pranzo insieme… Joseph Ratzinger si fermò un istante come a riassaporare nella memoria le immagini di quegli anni. Poi a braccio aggiunse: “Se cerco di immaginare un po’ come sarà in Paradiso, mi sembra sempre il tempo della mia giovinezza, della mia infanzia. Così, in questo contesto di fiducia, di gioia e di amore eravamo felici e penso che in Paradiso dovrebbe essere simile a come era nella mia gioventù. In questo senso spero di andare a casa, andando verso l’altra parte del mondo“.

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