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Il mistero del Covid-19 tra paure, geopolitica e sicurezza

Una sfida antropologica che incide nel quotidiano e influisce sull'assetto globale

E’ qualcosa di diverso dalle altre difficili prove avute finora. E’ un test probante il coronavirus, una sfida globale che affonda i suoi artigli nell’antropologia umana, costringendo ognuno di noi a rivedere le sue abitudini, le sue sfere di quotidianità, in nome di un’emergenza che non accenna a diminuire. L’Italia, dopo il decreto “restate a casa” sottoscritto dal premier Conte, inizia a vivere una stagione da fase bellica, costretta a fare i conti con un divieto di socializzazione che costituisce un’antitesi a quelli che sono i naturali rapporti fra persone. Necessario, tuttavia, a contrastare la diffusione di un virus che riempie gli ospedali e colpisce a morte soprattutto i più deboli.

A fronte dell’emergenza

Sul Covid-19, fin dalla sua esplosione in Cina, sono stati versati fiumi di inchiostro, tra gli aggiornamenti costanti dei dati e le innumerevoli richieste di chiarimento a medici e specialisti, nel disperato tentativo di capirci qualcosa. Perché la malattia, anche se non contratta, mette alla prova la resistenza dei Paesi, il nostro forse più di altri, che tenta di fare quadrato contro il contagio ma che scade nei frutti peggiori della psicosi collettiva, che solleva le carceri e, quasi per contrappasso, vede nell’infrazione dei divieti un buon modo per esorcizzare la paura. Una forma di contrasto deleteria, frutto dell’incisione profonda del Covid nell’ambito del nostro agire quotidiano.

Un riflesso dell’uomo

Nella letteratura che la ancor breve storia del coronavirus ha prodotto, specie nelle fasi iniziali, ha preso piede la chiave di volta che vedeva nel virus una minaccia riconducibile al bioterrorismo, ipotesi inizialmente accolta (perlomeno in forma di dibattito) poi via via accantonata alla luce della ben più urgente opera di contrasto. Del resto, secondo il professor Jean-Pierre Darnis, consigliere scientifico dello Iai e professore associato all’Università di Nizza Sophia-Antipolis, si tratta di un riflesso classico delle situazioni di emergenza: “Farsi paura e aver paura. E’ un desiderio antropocentrico – ha spiegato a Interris.it – pensare che le cose siano da ricondurre a un atto doloso. La maggior parte dei rischi, però, sono incidentali o naturali. Che l’uomo possa entrarci o meno in qualche modo è vero ma non sono assolutamente riconducibili a un dolo”.

Timori ancestrali

Nel caso del coronavirus, l’impressione è di trovarsi di fronte a una prova non nuova per il genere umano ma, di rimando, profondamente diversa dalle precedenti nei suoi effetti più tangibili: “Abbiamo un evento pandemico che di per sé non rappresenta una novità ma, nello specifico, mette in ginocchio le capacità ospedaliere, perché intasa pronto soccorso e reparti di terapia intensiva. E da questo si crea una completa rottura della catena ospedaliera sulle cure, anche quelle non legate a questa patologia. Purtroppo è una situazione molto difficile ma da questo nesso, che può sembrare molto settoriale e non contraddice il fatto che molte delle persone che prendono questa malattia hanno sintomi molto lievi, si crea una violenza sulla società che sta producendo effetti a catena fino a pochi giorni fa non pensabili”. Una crisi innanzitutto sociale, che rimette in discussione “il senso di sicurezza, affidamento, di senso civile e anche di democrazia”. Uno scenario molto particolare, “immaginato ma come frutto di un attacco terroristico. E’ qualcosa di estremamente preoccupante ma che possiamo definire naturale”.

Un profilo bellico

Secondo Darnis, “un attentato terroristico probabilmente non sarebbe arrivato a una tale potenza. Non è un paragone poi così calzante, distoglierebbe lo sguardo dalla posta in gioco attuale. Abbiamo un’epidemia dirompente sugli effetti che ha sull’intasamento degli ospedali, in Lombardia ma si prospetta anche in tutta l’Italia come è stato in Cina a Wuhan. Noi non abbiamo purtroppo imparato dall’esempio cinese. La situazione ci sta portando a uno scenario di guerra, perché si rifà alla psicologia delle grandi battaglie dell’Ottocento, in cui all’entrata delle tende si diceva ‘quello sì, quello no'”. Un passo indietro di fatto, che ha colto impreparata la società occidentale: “C’è un rischio, in alcune parti già concreto, di un crollo. Ed è molto grave, perché questo può inceppare l’intera società”.

Un isolamento di tutela

Inevitabile il rischio di ritrovarsi di fronte, passata la crisi, ad assetti globali profondamente diversi da un punto di vista sociale: “Ormai abbiamo già cambiato le nostre abitudini, siamo usciti dal binario delle nostre vite programmate. Se la cosa si risolve in due-tre mesi può andare bene, ma dobbiamo sperare che lo Stato regga e che delle solidarietà si installino. E’ molto difficile perché si combatte questo virus se uno non ha contatti con altri. Bisogna completamente isolarsi e questo è antitetico della solidarietà. E’ veramente qualcosa di molto difficile, l’Italia lo sta prendendo in pieno e anche altri Paesi europei lo stanno sottovalutando. L’Europa per il momento non lo sta gestendo bene e gli Stati Uniti ancora peggio. Le notizie che arrivano dagli Usa sono molto preoccupanti perché portano a scenari che finora avevamo visto solo in qualche serie tv, soprattutto quello di installarsi in un pericolo di anarchia”.

Assetti geopolitici

In un momento storico in cui si ha a che fare con un’epidemia su scala globale, sarebbe impossibile non considerare l’impatto che questa potrebbe avere su un piano geopolitico. Forse non tale da ridisegnare gli assetti in sé ma, forse, sufficiente a influire in parte sulle relazioni internazionali. Se non altro per la scarsa sintonia mostrata nel fronteggiare l’emergenza da parte dei vari Stati, soprattutto quelli europei, che hanno portato all’isolamento di alcuni e a un’incertezza sulle situazioni reali in altri. Una sfida globale destinata, probabilmente, a tenere banco ben più di ipotesi di virus in fuga da un laboratorio: “L’Europa – ha spiegato a Interris.it Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa – non ha la capacità di sopportare morti in guerra, né qualche migliaio di morti per un’influenza. E questo ci rende più vulnerabili di Paesi in cui i morti per malattia sono una costante quotidiana, anche per altri mali. Oppure dove non esistendo strumenti di screening o di analisi sanitaria sul territorio, la gente muore senza che nessuno attribuisca queste morti a un virus piuttosto che a un altro”.

La paralisi italiana

Al netto di cambiamenti minimi nell’ambito della geopolitica, con la più impellente questione del rallentamento economico, ammortizzare l’impatto del Covi dipenderà soprattutto “dalla capacità delle società di affrontare le difficoltà – e in Europa e in Italia siamo al minimo – e dalla capacità della classe dirigente di affrontare con decisioni efficaci la fase di emergenza”. Un tema, quest’ultimo, che secondo Gaiani vede indietro l’Italia: “ll decreto di queste ore, che ha paralizzato il Paese (cosa che non è successa nemmeno in Cina), è frutto non di un boom del virus, che ha mantenuto la sua crescita prevista, ma degli errori madornali fatti con il decreto di sabato sera, fra indiscrezioni e fuga di notizie, che ha fatto scappare la gente dalle zone del Nord prima che venissero schierati gli assetti militari che potessero cinturare queste aree”. In sostanza, quello che emergerà a emergenza finita “sarà la tendenza di alcuni popoli a resistere alle crisi e, soprattutto, la capacità delle classi dirigenti di affrontare situazioni difficili come l’Europa non è più abituata a fare”.

Una sfida europea

Assorbita la vicenda Brexit e preso atto di un assetto complessivo ancora troppo frammentario, il Covid rappresenta una sfida cruciale anche e soprattutto per l’Europa, forse il crocevia definitivo per capire quale impalcatura sorregge l’assetto del Vecchio continente: “Io sono molto scettico sull’Europa. E’ un punto di confronto tra Paesi che aspirano ognuno a esprimere o la propria egemonia o a salvaguardare i propri interessi nazionali. A parte l’Italia, che vede nell’Europa come l’alibi per lasciare ad altri decisioni difficili che non ha voglia di prendere magari in termini di difesa comune o di politica estera. Non a caso da quando il ruolo dell’Europa è diventato più forte, l’Italia non esprime più un Ministero degli Esteri della giusta rilevanza. Questo è un gravissimo errore, perché un Paese come l’Italia non può abdicare su determinati fronti. Credo che il virus confermerà che ogni Paese fa quello che vuole. Se c’è un momento in cui potrebbe dimostrare di esistere non è sul coronavirus ma sulla frontiera con la Turchia, dove mi pare stia tenendo il sostegno alla Grecia e una posizione abbastanza forte”.

Tutela reciproca

Va da sé che l’emergenza Covid-19 richiederà non solo responsabilità comune nell’affrontare la crisi ma anche e soprattutto discernimento. Sulla ricezione delle notizie a riguardo ma, soprattutto, sul buonsenso necessario a fare della sfera quotidiana lo strumento di contrasto al contagio, non di diffusione. Tralasciando ipotesi di minacce bioterroristiche: “Mancano elementi concreti, tanti indizi ma nessuna prova”. Ora è il momento delle azioni concrete, della tutela reciproca. Per assorbire gli effetti ci sarà tempo e modo.

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