La morsa della violenza di genere stringe la vita e l’esistenza delle vittime, purtroppo, sotto molteplici aspetti, dalla loro incolumità fisica e mentale alla relazioni umane fino all’occupazione. Tra le varie forme di questo grave fenomeno, l’Istituto nazionale di statistica ne considera una che va sotto la voce di violenza economica. “Tra le forme di violenza economica, sono evidenziati l’impedimento di conoscere il reddito familiare, di avere una carta di credito o un bancomat, di usare il proprio denaro e il costante controllo su quanto e come si spende”, dice Istat, aggiungendo che possono inoltre essere compresi sotto questa definizione anche “una serie di reati che vanno dall’estorsione alla violazione degli obblighi di assistenza familiare”. Porre rimedio alla vulnerabilità socioeconomica delle vittime di violenza di genere è una delle priorità per far sì che queste ultime possano compiere integralmente un passaggio importante – tanto quanto la decisione di rivolgersi a un Centro antiviolenza – nel loro percorso di fuoriuscita dalla violenza e di empowerment, quello del reinserimento sociale e lavorativo. Il rischio è infatti che le vittime, specie quando di tratta di donne con figlie e figli, senza un reddito sufficiente, un’abitazione, un lavoro dignitoso e dei servizi pubblici funzionanti, si trovino in condizione di tornare a vivere con gli stessi autori della violenza da cui erano dovute fuggire. Uno degli strumenti pensati per sostenere le donne in questo delicato passaggio è il reddito di libertà nazionale, istituito nel 2020 per rispondere ai bisogni economici imposti dal lockdown dovuto alla pandemia, ma l’esiguità delle risorse stanziate, 12 milioni per il periodo 2020-2022, lo rende insufficiente a intercettare i bisogni di una platea di potenziali beneficiarie più ampia – 21mila donne, secondo Istat. Ogni anno, circa 50mila donne si rivolgono ai centri antiviolenza e nel 2020, quando è stato introdotto questo contributo, in seguito svincolato dall’emergenza sanitaria, “le donne assistite dai Cav senza lavoro o risorse per rendersi autonome erano il 60,5%”, si legge nel rapporto di ActionAid “Diritti in bilico”, “e la quota sale al 70% tra le giovani dai 18 a 29 anni, le più precarie”.
Strumenti di supporto al reddito
Complessivamente, per il periodo 2015-2022, il nostro Paese hanno stanziato oltre 150 milioni per dare sostegno alle donne non autonome economicamente impegnate in un percorso di fuoriuscita dalla violenza, ripartiti in circa 20 milioni per il sostegno al reddito, 124 milioni per interventi di re/inserimento lavorativo, tra cui il congedo indennizzato di tre mesi per il mantenimento dell’occupazione, infine 12 milioni per favorire l’autonomia abitativa. Il reddito di libertà, istituito nel maggio 2020 con il decreto legge Rilancio, compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito, consiste in un contributo di 400 euro al mese per un massimo 12 mesi, utilizzabile per l’autonomia abitativa e per il percorso scolastico e formativo di figlie e figli minori. Tra i criteri di accesso, oltre il percorso di empowerment, una condizione di particolare vulnerabilità o povertà, la residenza sul territorio italiano. Quest’ultimo un criterio, si legge nel rapporto di ActionAid, ritenuto discriminante “per le donne senza fissa dimora o straniere, ma anche per coloro che per motivi connessi alla violenza (per esempio il trasferimento in altro territorio) non possono presentare la domanda nel proprio Comune di residenza”. Come detto, la misura è finanziata con 12 milioni di euro per un triennio – nel primo anno ne hanno beneficiato 600 donne a fronte delle 3.283 richieste presentate, in base ai dati dell’Inps – e con questi fondi, prosegue il rapporto, si calcola possano accedervi 2.500 donne sulle circa 21mila all’anno che, secondo i dati Istat, che ne avrebbero necessità. Quella del reddito di libertà nazionale è un’iniziativa che è stata preceduta da scelte simili compiute negli anni scorsi da alcune amministrazioni regionali. La prima è stata la Regione Sardegna, che nel 2018 ha adottato una misura di sostegno al reddito specificatamente rivolta a donne in fuoriuscita dalla violenza, denominata già Reddito di libertà, prevedendo un sussidio mensile di 780 euro per un triennio.
Il rientro nel mondo del lavoro
In ambito occupazionale, negli anni le istituzioni ai vari livelli, Stato e Regioni, hanno stanziato circa 124 milioni di risorse negli ultimi sette anni: il 72%, pari a 89,2 milioni, per quegli interventi di mantenimento dell’occupazione, mentre il 28%, i restanti 34,8 milioni, per l’inserimento e il reinserimento lavorativo, dal tutoraggio alle borse lavoro, dagli incentivi per le assunzioni ai percorsi di formazione professionale, sebbene, illustri il report di ActionAid, “il numero di donne disoccupate accolte dalle strutture antiviolenza nel 2020 sia del 50%”. Per il mantenimento dell’occupazione sono stati pensati due strumenti, il congedo indennizzato di tre mesi per le vittime di violenza e il ricollocamento per le dipendenti pubbliche. Nel primo caso, a fronte di un’importante crescita delle domande presentate dal momento della sua introduzione, il 2015, passate da 50 alle 1.331 dello scorso anno, nel rapporto si legge che non ha fatto seguito una crescita delle domande accolte, 432 (il 32%) nel 2021.
Disagio abitativo
Una terza questione delicata per le donne che hanno intrapreso un percorso di uscita dalla violenza è quella di dove andare a vivere e come poterselo permettere. Il rapporto evidenzia infatti come “le donne che hanno subito violenza hanno una probabilità quattro volte superiore rispetto alle donne in generale di vivere situazioni di disagio abitativo”, per via delle spese da sostenere quando non è ancora economicamente solida o perché deve trasferirsi. Nel periodo 2015-2022 sono stati stanziati complessivamente per promuovere l’autonomia abitativa circa 11 milioni di euro – 9,3 milioni da risorse nazionali e 1,8 da quelle regionali –, contributi economici per utenze, caparre e affitti.
L’intervista
In occasione della recente pubblicazione del rapporto “Diritti in bilico”, quando manca poco alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Interris.it ha intervistato Rossella Silvestre, Programme officer nell’unità di politiche di genere e giustizia economica di ActionAid, che si è occupata del lavoro di ricerca e di redazione del report.
Come nasce questo report e qual è il suo focus?
“Dal 2015 ActionAid monitora sistema antiviolenza affinché venga garantita protezione alle donne e dopo alcuni anni si è pensato di osservare lo step successivo, al momento fondamentale – dopo l’accoglienza – del raggiungimento dell’indipendenza economica. La ricerca è stata condotta attraverso un centinaio di testimoni all’interno di progetto che riguarda diversi stakeholder, come centri antiviolenze e istituzioni, che sono a contatto con le donne. Il focus di questo report è l’accesso ai diritti: oltre al processo di empowerment, vanno garantiti anche un’abitazione dopo l’uscita dalla casa rifugio, una vita e un lavoro dignitosi”.
La misura del reddito di libertà quanto ruolo ha in questo incide?
“E’ uno degli strumenti predisposti per favorire l’indipendenza economica, ma non in molte città italiane 400 euro mensili non permettono di coprire i costi dell’affitto. Inoltre non è una misura strutturale e date le esigue risorse raggiunge una platea minore: ne beneficeranno 2.500 donne rispetto alle 21mila potenziali beneficiare di cui parla Istat”.
Quali sono i bisogni, le necessità e le difficoltà di una donna per uscire dal ciclo della violenza e quali quelle quando cerca di ricostruirsi la propria autonomia?
“Il primo problema è quello della casa. Per cercare un’abitazione per un lungo periodo è necessario avere un reddito regolare, una questione che riguarda quelle donne che hanno un’occupazione e per le quali si può pensare di implementare quegli strumenti che le aiutano a mantenere il lavoro, come il congedo indennizzato di tre mesi. Per quelle che non hanno impiego, è importante cercare di far incontrare la loro offerta di lavoro con la domanda delle imprese del tessuto produttivo locale. Un secondo problema è quello della mobilità: una donna con figli che vive in una realtà di provincia e trova un lavoro lontano, a 10 o 20 chilometri di distanza da casa, come fa per esempio ad accompagnare i figli a scuola e ad andare sul posto di lavoro? E’ necessario agevolare quindi queste donne anche con soluzione alternative ai trasporti pubblici. La mobilità è fondamentale per la vita delle donne”.
Nel corso della vostra indagine avete riscontrato differenze territoriali?
“Ce ne sono e sono importanti, ma non riguardano dicotomia Nord-Sud bensì quella tra città e provincia: come detto, il reddito di libertà di 400 mensili può essere d’aiuto in un piccolo paese ma non in una grande città. La Regione Puglia ha pensato a dei buoni strumenti di sostengo al reddito e alle politiche abitative, mentre in Lombardia invece è in generale il tessuto produttivo locale che offre più opportunità alle donne”.
Quali sono altri strumenti messi in campo per supportare le donne che escono dalla violenza?
“Regioni come Sardegna e Lazio hanno optato per strumenti di supporto economico ad hoc, la Sicilia, insieme alla Puglia, ha invece introdotto strumenti di promozione dell’autoimprenditorialità femminile in un territorio dove non c’è molto lavoro. Altrove, come in Lombardia e in Emilia Romagna, si sono scelte le agevolazioni. E’ necessario implementare gli strumenti che sono già a disposizione e facilitarne l’accesso, perché adesso molto donne non possono farlo perché non possono produrre una dichiarazione Isee separata da quella dell’autore dei maltrattamenti”.