In coincidenza con il completo ritiro delle truppe occidentali, i talebani hanno lanciato un’offensiva su vasta scala in Afghanistan. In soli sette giorni hanno conquistato il decimo capoluogo di provincia. L’ultimo, in ordine di tempo è Ghazni, a 150 chilometri da Kabul. La rapida disfatta delle forze di sicurezza afghane è palesemente visibile e, se l’avanzata dei talebani dovesse procedere a questi ritmi, la caduta di Kabul è prevista entro 90 giorni, mentre altri sostengono che la disfatta avverrà entro un mese. L’allarme parte dalla stessa amministrazione di Biden che, mai avrebbe pensato una situazione così catastrofica quando ha annunciato il completo ritiro delle forze militari Usa dal Paese entro il 31 agosto.
La preoccupazione in Europa
Nel frattempo, in Europa, monta la polemica sui rifugiati afghani, con Bruxelles che teme un’ondata di profughi come quella provocata dalla crisi siriana. Germania, Belgio, Olanda, Danimarca, Austria e Grecia, nei giorni scorsi, hanno chiesto alla Commissione europea di non fermare i rimpatri forzosi di chi ha chiesto e non ha ottenuto l’asilo politico. La richiesta ha suscitato un coro di proteste da parte di Ong e organismi umanitari. Fra questi anche Amnesty International e altre 25 organizzazioni non governative che hanno condannato duramente la presa di posizione dei 6 Stati membri. Alla lettera dei sei la Commissione Ue aveva risposto chiarendo che oggi è da escludere un’ondata massiccia di profughi e invitando i membri a impegnarsi per evitare una dramma umanitario. Molto duro anche il giudizio di Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo su Rifugiati ed esiliati, che denuncia la strategia europea “basata solo sull’idea di impedire di arrivare ai richiedenti asilo, attraverso accordi con Paesi poco democratici”.
L’intervista
Ma qual è la situazione in Afghanistan? Che ruolo giocano gli Stati Uniti e l’Europa? A queste domande In Terris ha provato a dare una risposta intervistando il dottor Fabrizio Maronta, responsabile delle relazioni internazionali di Limes.
In coincidenza con il ritiro delle truppe occidentali, i talebani hanno lanciato un’offensiva su vasta scala in Afghanistan. Quali sono i principali scenari che si prospettano nel Paese?
“Ne vedo solo uno possibile. L’Afghanistan torna a essere luogo di dominio di gruppi armati, come del resto è stato nell’ultimo secolo. In questo caso, sono sì i talebani, ma si tratta un po’ di una loro evoluzione rispetto a quella sullo sfondo dell’11 settembre. Le potenze esterne confinanti, Pakistan e Iran, hanno un ruolo maggiore rispetto al passato, tentano, spesso con successo, di influenzare le aree a loro contigue per – nel caso dell’Iran – limitare l’instabilità che arriva dall’Afghanistan. Il Pakistan, invece, cerca di coltivare una sorta di ‘retroterra’ per avere maggiore profondità strategica. La situazione, rispetto a venti anni fa, resta una sorta di residua presenza occidentale, a sostegno di Kabul. Il problema è che il governo di Kabul, questo non solo da oggi, non riesce a governare il Paese, ma governa – quando va bene – la capitale e poco più”.
Quali possono essere le ragioni?
“Le ragioni di questa difficile assoggettabilità e modificabilità dell’assetto afghano sono di natura geopolitica e storica. Questa guerra l’occidente non l’ha mai vinta, nemmeno nei momenti di maggior presenza militare. Si torna, non dico alla casella di partenza, ma a una situazione molto meno controllabile, gestibile e stabile rispetto ai desideri con cui Stati Uniti prima, Nato poi, erano andati lì”.
Esiste un reale rischio di tornare a una situazione come quella del 1996, anno in cui Osama Bin Laden e Al-Qaida si “stabilirono” nel Paese?
“No, perché nel frattempo si sono create delle sacche di notevole instabilità che in questa fase sono più consone alla presenza di organizzazioni terroristiche a vario titolo, in particolare in questo momento penso alla zona tra Siria e Iraq e alla Libia. Non c’è una situazione come quella delle guerre che si sono verificate dopo l’11 settembre, in cui c’è una regione che funge da buco nero e calamita i gruppi più o meno eterodiretti dell’islamismo. Oggi il Medio Oriente ‘allargato’ è meno strutturato di un tempo, proprio in virtù delle offensive americane e in seguito delle Primavere arabe e di ciò che ne è scaturito sia in Siria sia in Libia. L’Afghanistan ha dei ‘concorrenti’, in termini di situazioni di instabilità, che possono favorire la presenza e il radicarsi di gruppi”.
Come si è evoluta la situazione nel tempo?
“Dobbiamo tenere presente che ci sono state delle ‘evoluzioni’ molto importanti come quelle del qaidismo e dell’islamismo ‘in franchising’ come era quello di Al-Qaida: un modello reticolare, territorialmente poco radicato, non facilissimo da abbattere che funzionava con cellule. Quella stagione ha insegnato, o dovrebbe averlo fatto, soprattutto agli apparati di intelligence piuttosto che a quelli militari, a combattere il radicalismo territorialmente diffuso e non determinato. Poi c’è stata la stagione direttamente conseguente all’evoluzione di quel modello e soprattutto all’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq, del Califfato, dello Stato Islamico, che è la versione dell’estremismo con velleità di radicamento ‘statale’. L’occidente ha portato un’offensiva che, data anche la sproporzione di mezzi, è stata complessivamente vinta. L’estremismo islamico ha un avversario che è in parte l’occidente, ma anche gli arabi a cominciare dall’Arabia Saudita, dalla Turchia e l’Iran”.
Qual è la situazione dell’Afghanistan attualmente?
L’Afghanistan resta un Paese a sfondo tribale, privo di un’economia propriamente detta, che nasce come un ritaglio di imperi altrui. Una sorta di entità mai strutturata, destinata a una povertà persistente, difficile da governare anche orograficamente. Tutto questo lo rende un’entità difficile da stabilizzare. La prospettiva è quella di un’instabilità che, se l’Occidente non commette gli errori fatti dai sovietici e dall’America in funzione antisovietica, è più gestibile rispetto al passato. Un’instabilità per il momento non eliminabile”.
Gli Stati Uniti hanno mandato a Doha Zalmay Khalilzad per negoziare la pace con i talebani. Pensa che sia una soluzione praticabile?
“Credo sia una soluzione praticabile nella misura in cui non ha alternative. Quello dei talebani è un movimento che si è evoluto nel corso dei decenni. Dal punto di vista militare è una ‘creazione’ statunitense in funzione antisovietica dagli anni ’80 in poi. IL fervore ideologico viene dato loro dalle matrasse, le scuole coraniche pachistane, sono sicuramente un’affiliazione dell’Islam pachistano, tra l’altro anche politicamente pilotato, sicuramente diverso da quello saudita. Queste persone non hanno progetti espansionistici, non mirano a sovvertire lo status quo – per quanto fluido della regione -, il loro obiettivo è quello di proporsi come quello che sono: l’unico soggetto che, con opportune alleanze con i vari signori della guerra, può fungere da stabilizzante. L’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, non ha molta scelta se vogliono effettivamente ritirarsi e lo sanno molto bene, da almeno 10-15 anni. Alternative non ce ne sono. Il punto da capire è se, pagando, i talebani possono essere indotti a tenere il Paese in un modo che sia passabilmente affine a quello Occidentale, ossia di non farne di nuovo un ‘santuario’ del terrorismo. L’alternativa sarebbe tornare in forze e puntellare il governo di Kabul che però non è in grado di tenere il Paese”.
In questo contesto qual è il ruolo dell’Europa?
“Sinceramente non vedo grandi ruoli. Nella misura in cui se resterà una presenza di carattere di sicurezza militare o anche paramilitare, di addestratori, i nostri Carabinieri ma anche i reparti scelti francesi possono dare certamente un contributo. A differenza dell’Iran, anche gli interessi economici sono limitati, fatta eccezione per un settore minerario, dove però è la Cina che si è portata avanti, parlo di quello minerario: minerali e metalli rari importanti per il settore elettrico. Lì ci può essere un appetito che giustifichi la presenza Occidentale a negoziare, probabilmente, con un governo espressione dei talebani che riesca a generare per l’Afghanistan introiti”.
Secondo i dati forniti dall’Onu, nel mese di luglio più di mille persone sono state uccise o ferite. C’è il rischio di una nuova catastrofe umanitaria?
“L’Afghanistan, purtroppo, è una catastrofe umanitaria continua. E’ un Paese che ha indici di sviluppo umano al di sotto della media della regione e più simili a quelli dell’Africa subsahariana. E’ un Paese martoriato dalla guerra, afflitto da svantaggio geografico. Io mi sentirei di dire che le caratteristiche della situazione umanitariamente difficile credo che non siano mai venuti meno. L’Afghanistan è stato uno degli esempi recenti più chiari dei guasti indotti dall’estemporaneità della cooperazione internazionale, soprattutto di quella governativa, nel caso specifico a corredo soprattutto della presenza militare americana, erano arrivati nel Paese una gran quantità di soggetti che facevano cooperazione internazionale. Una quindicina di anni fa, in Afghanistan c’era una gran quantità di agenzie di cooperazione, tale da modificare l’economia- locale, spesso ‘drogandola’. E’ un modello che ricorda molto quello dell’Africa degli anni 80-90. Questo si è tradotto in un’iper-presenza occidentale in tantissimi ambiti che, finito l’impegno se ne vanno, e lasciano una situazione che tende al tracollo. Una sorta di tsunami di aiuti difficilmente poi sostenibili nel tempo. Tutto questo fa sì che la situazione umanitaria sia difficile. Le premesse per una nuova catastrofe ci sono”.