Il Sinodo dei vescovi della chiesa greco-cattolica, tenutosi nella cittadina ucraina di Leopoli lo scorso 10 settembre, punta il dito contro Mosca e lancia un appello alla comunità internazionale perché si metta fine a quello che, a suo dire, è un grande spargimento di sangue provocato dalla Russia.
“Alziamo la nostra voce in nome del popolo ucraino– si legge in una nota – e diciamo a tutte le persone del mondo: questo paese sta sanguinando. Uno Stato sovrano e pacifico ha subìto l’invasione militare diretta da parte del suo vicino”.
L’accusa dei vescovi è grave: “Centinaia di unità di armamenti pesanti, equipaggiamento e migliaia di mercenari armati e truppe dell’esercito regolare russo – continuano – stanno seminando morte e distruzione, nonostante i negoziati sul cessate il fuoco e gli sforzi diplomatici”. E la denuncia prende piede anche nei confronti della propaganda russa, che secondo il Sinodo “non è meno devastante delle armi di distruzione di massa” e che distorce i fatti all’interno della società continuando ad infondere odio.
L’appello degli alti prelati è rivolto a tutti: organizzazioni internazionali e credenti di ogni religione e confessione, persone di buona volontà e capi di Stato: “Fermate il bagno di sangue in Ucraina, perché chiunque sta uccidendo i suoi cittadini non esiterà domani a puntare le armi contro altri nel proprio paese e fuori dai propri confini, verso qualunque Stato del mondo”.
In Crimea, nel frattempo, si registrano i primi problemi con i membri stranieri delle comunità religiose: l’agenzia di informazione Forum18 riporta che cinque dei 23 imam turchi invitati dalle autorità religiose locali, nell’ambito di un programma ventennale, sono stati costretti a lasciare il Paese: il servizio immigrazione russo avrebbe rifiutato di prolungare i loro permessi di soggiorno spiegando che ora devono ottenere un visto russo. Altri, tra cui il prete greco-cattolico Bogdan Kostetsky, hanno invece lamentato di essere sotto il continuo controllo dell’Fsb, l’intelligence russa. Kostetsky ha affermato di esser stato interrogato più volte.
“In questo momento – conclude il Sinodo – il silenzio e l’inazione vanno considerati ‘complicità’”.