Nel film “I due Papi”, opera per altri aspetti interessante e sicuramente avvincente nella concatenazione delle vicende narrate, c’è una grave inesattezza di fondo che compromette la veridicità dell’intera impostazione. Nella pellicola, a tratti più fantasiosa che storicamente fondata, si tratteggia Joseph Ratzinger proteso verso il pontificato e determinato a conseguire l’elezione in conclave. Con terminologie laiche, lo si potrebbe quasi definire un carrierista, uno scalatore delle gerarchie ecclesiastiche col pensiero fisso alla fumata bianca dal comignolo della Cappella Sistina. Per chi ha avuto modo di conoscere e documentare i lunghi anni del servizio svolto dal reale Ratzinger nella Curia romana, questa descrizione suona stonata come un pianoforte scordato. Chiunque, per motivi personali o professionali, abbia frequentato i dicasteri vaticani a partire dagli anni Ottanta non può che sorridere all’immagine del mite teologo bavarese assetato di potere e cinicamente ripiegato sulla tessitura di trame dirette al conseguimento del papato.
Colloqui di fantasia
La verità dei fatti confligge clamorosamente con il ritratto di celluloide che lascia basiti quanti abbiano avuto diretta esperienza delle dinamiche che hanno portato al passaggio di testimone da San Giovanni Paolo II a Benedetto XVI. Tralasciando i colloqui personali inevitabilmente fantasiosi tra Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger, vale la pena di soffermarsi sul “prima” e cioè su quegli aspetti biografici e caratteriali dell’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio ai quali In terris ha dedicato numerosi articoli di approfondimento e di ricostruzione. Nella Curia wojtyliana, Ratzinger era l'esatto opposto del porporato in perenne “campagna elettorale”. Un esempio tra i tanti che si potrebbero fare. Il 16 aprile 2002 è un martedì e sulla scrivania di Giovanni Paolo II c’è una busta non gradita all’anziano Pontefice. Si tratta delle dimissioni del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che quel giorno compie 75 anni, l’età canonica del collocamento a riposo per i responsabili delle diocesi e dei dicasteri vaticani. E’ un atto dovuto in base alle leggi in vigore nella Chiesa universale che regolamentano il pensionamento dei presuli.
Dimissioni respinte
La norma era stata introdotta nel 1966 da Paolo VI che chiedeva di presentare “spontaneamente” la rinuncia all’ufficio. Fu poi nel 1988 la Costituzione apostolica della Curia Romana “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II a stabilire che i cardinali di Curia sono “pregati” di presentare le proprie dimissioni quando compiono 75 anni. E un vescovo, quando raggiunge quell’età, automaticamente decade anche da ogni altro “ufficio a livello nazionale”. Come è avvenuto sempre nella sua vita, Joseph Ratzinger rispettò fedelmente le regole. Ma Karol Wojtyla, già molto affaticato dalla malattia, non aveva alcuna intenzione di rinunciare al suo più autorevole collaboratore nel governo centrale della Chiesa. Anzi, vedeva in lui il più accreditato e auspicabile dei propri possibili successori in una futura stagione che profeticamente intuiva particolarmente complicata. Dopo un pontificato durato un quarto di secolo, tutti i potenziali “delfini” erano usciti di scena e Giovanni Paolo II vedeva nel suo supremo teologo una risorsa di cui la Chiesa non poteva privarsi.
Le difficoltà della transizione
L’intenzione di Joseph Ratzinger, invece, era quella di tornare in Germania e dedicarsi gli anni della pensione agli studi di teologia. Il modo più coerente e intimamente gratificante di concludere il suo “cursus honorum”, sempre in spirito di servizio e dedizione al Vangelo. Perché Giovanni Paolo II avesse respinto le dimissioni del cardinale Ratzinger contravvenendo le stesse regole da lui fissate per il collocamento a riposo dei porporati curiali lo si sarebbe capito dall’approccio collaborativo e paterno con cui Joseph Ratzinger avviò il suo pontificato. “Conosceva benissimo le difficoltà alle quali andava incontro dopo la fumata bianca e sapeva perché Giovanni Paolo II pensasse a lui come naturale prosecutore del proprio Magistero”, spiega uno stretto collaboratore di Benedetto XVI. Un episodio tra tanti aiuta a capire l’approccio di Joseph Ratzinger al ministero petrino. A volte, infatti, il senso delle cose grandi o il tratto distintivo di una personalità complessa può affiorare nitidamente da avvenimenti in apparenza minori. E così capita che una chiave di lettura per comprendere un pontificato carico di eventi sorprendenti e di profondi significati come quello di Benedetto XVI (al timone della barca di Pietro dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013) emerga da una delle tante udienze di routine che scandiscono l’agenda quotidiana di un Pontefice.
Sincerità d'animo
Mancavano pochi giorni al Natale del 2006, il secondo di Joseph Ratzinger sul soglio petrino e, a essere ricevuta nell’Aula Nervi, è comunità Villa Nazareth per ricordare i 60 anni dalla fondazione a Roma della residenza universitaria cattolica per gli studenti poveri e meritevoli. A presiedere la struttura e a guidare la delegazione in visita al Papa è uno dei più fini diplomatici per decenni al servizio della Santa Sede, il cardinale Achille Silvestrini, che alcuni giornali avrebbero in seguito descritto come sostenitore della cordata di conclavisti favorevoli all’elezione di un candidato “progressista” in opposizione al “tradizionalista” porporato tedesco poi uscito dalla Cappella Sistina il 19 aprile 2005 con i paramenti sacri di Papa della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, che l’11 febbraio 2013 sconvolgerà il mondo annunciando in latino la sua rinuncia al ministero di vescovo di Roma, accolse con la paterna cordialità del pastore i suoi ospiti, pronunciando parole affettuose, scegliendo espressioni di sincera ammirazione, tutt’altro che di circostanza. “Villa Nazareth, che ha accolto nei trascorsi sessant’anni diverse generazioni di fanciulli e giovani, si propone di valorizzare l'intelligenza dei suoi alunni nel rispetto della libertà della persona, orientata a vedere nel servizio degli altri l’autentica espressione dell'amore cristiano”, riconobbe affettuosamente. E poi aggiunse alcune considerazioni che sintetizzano il mandato che Joseph Ratzinger affidava a ciascun credente dandone lui stesso personale testimonianza: “il coraggio delle decisioni”. “Villa Nazareth”, sottolineò il Pontefice, “vuole formare i suoi giovani al coraggio delle decisioni, in un atteggiamento di apertura al dialogo, con riferimento alla ragione purificata nel crogiuolo della fede”. Lette alla luce del suo ricchissimo percorso nel cuore e al vertice della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II, le riflessioni rivolte da Joseph Ratzinger ai membri della comunità di Villa Nazareth risuonano come un folgorante compendio di umanesimo fondato sul Vangelo. “La fede è in grado di offrire prospettive di speranza ad ogni progetto che abbia a cuore il destino dell'uomo”, spiegò Benedetto XVI. “La fede scruta l’invisibile ed è quindi amica della ragione che si pone gli interrogativi essenziali da cui attende senso il nostro cammino quaggiù.
Convergenza
La parola di Dio richiede un ascolto attento e un cuore generoso e maturo per essere vissuta in pienezza”. Da professore di dottrina abituato più alla penombra delle biblioteche e ai colloqui individuali con gli studenti che agli interventi pubblici sotto i riflettori di un palco, l’ex perito conciliare affermò che “i contenuti della rivelazione di Gesù sono concreti” e che “un intellettuale cristianamente ispirato deve sempre essere pronto a comunicarli quando dialoga con coloro che sono alla ricerca di soluzioni capaci di migliorare l'esistenza e di rispondere all'inquietudine che assilla ogni cuore umano”. E qui, nel breve volgere di poche, densissime meditazioni, si fece largo la profonda vocazione di Joseph Ratzinger e cioè la necessità irrinunciabile di “mostrare la corrispondenza che esiste tra le istanze che emergono dalla riflessione sulle vicende umane e il Logos divino”. In questo modo, infatti, “si crea una convergenza feconda tra i postulati della ragione e le risposte della Rivelazione e proprio di qui scaturisce una luce che illumina la strada su cui orientare il proprio impegno”. Un momento di “ordinaria amministrazione” che dimostrò quanto avesse visto giusto Giovanni Paolo II nel 2002 a non accettare la richiesta dell’aspirante pensionando cardinal Ratzinger, capace di mediare meglio di chiunque altro tra differenti sensibilità curiali. Le ragioni della profonda sintonia e della totale convergenza di visioni tra il Pontefice polacco e il suo braccio destro teologico meritano di essere analizzate in modo accurato perché hanno segnato in modo indelebile gli ultimi quattro decenni di storia ecclesiastica.
L'ammirazione di Karol Wojtyla
Giovanni Paolo II aveva letto tutti i libri di Joseph Ratzinger in versione originale e lo conosceva molto bene. Con la sua scelta dimostrò eccellenti doti di comando. Il futuro Benedetto XVI lo completava perfettamente, impersonava tutto quello che non era lui. Non c’erano persone più diverse del polacco sportivo e del gracile bavarese, del carismatico ed estroverso Giovanni Paolo II, un “papa da toccare”, che voleva abbracciare tutto il mondo, mentre l’altro era un uomo tranquillo, introverso, sensibile, timido. Uno era un mistico e un poeta, l’altro un teologo dedito all’analisi. Il grande cuore della chiesa e il suo acuto intelletto: le debolezze dell’uno erano i punti di forza dell’altro. Studiarne i motivi profondi richiede il supporto di un prelato che li ha conosciuti bene entrambi e che, con mezzo secolo di missione tra i giovani e una serie di creative intuizioni pastorali ha accompagnato i due pontificati.