Con troppa sufficienza, anche a causa di un approccio “opaco” dei mezzi d’informazione, tolleriamo che si parli, o parliamo noi stessi, di prime, seconde e terze Repubbliche. Nonostante una spregiudicata rappresentazione-narrazione delle ragioni della riforma della Costituzione, tali che non riusciamo a capire se si tratti dell’esito di lotte di potere interne a sistemi di influenza delle decisioni pubbliche, ovvero, di spericolate scommesse di una classe partitica del tutto irrappresentativa (al netto dell’incostituzionalità della legge elettorale di cui hanno beneficiato), sembra chiaro che la motivazione più accreditata sia costituita da una visione dispregiativa del potere legislativo. In chiaro, si vuole sostituire la centralità del Parlamento con quella del Governo.
Sento già dire, fuori le prove. A parte i lavori preparatori, fonte inestimabile ai fini della ricostruzione della volontà di questo delegittimato legislatore costituente, e con riserva di produrle punto per punto, eccone una che merita grande considerazione: recita la nuova Costituzione, nell’ambito di un articolo apparentemente tuzioristico: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materia non riservata alla legislazione esclusiva, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Ecco che scende in campo la superiorità dell’esecutivo sul legislativo, per la prima volta con una sottolineatura costituzionale. Il Parlamento, secondo la nuova disciplina costituzionale, con riguardo, si badi bene, alla questione della legislazione, pur sede della rappresentanza secondo gli immutati principi generali della Costituzione, cede la valutazione dell’interesse nazionale al Governo. Non mi soffermo sulle questioni tecniche del tutto evidenti (lasciandole agli analisti del formalismo), come potrebbero essere quelle di una contestazione dei requisiti di costituzionalità da parte della Camera in aperto dissenso con la valutazione fatta dal Governo. Mi limito alla sostanza, fortemente preoccupante, dell’introduzione di una scalarità protetta dell’iniziativa legislativa, a favore del Governo, e, per di più, nel delicato ambito della regolazione delle autonomie.
Mi sovviene di un passaggio, che qui piego all’esigenza di chiarire ciò che succede, di Dahl, ne “La democrazia e i suoi critici”. Di fronte alla complessità dei processi democratici, nel perdurante confronto-sintesi della rappresentanza e delle competenze, resta intatta un’ipotesi di ripartizione democratica dei ruoli e dei poteri. E propone, fra le altre, “un processo di approssimazione successiva”, nel quale “attraverso le decisioni elettorali il demo determina allo stesso tempo i fini generali della politica e stabilisce limiti generici sui mezzi accettabili; …all’interno dei limiti sui mezzi e sui fini stabiliti dal popolo, talvolta ampi, talvolta più ristretti, i rappresentanti eletti avrebbero adottato leggi e politiche; …all’interno dei limiti di tali leggi e politiche, gli organi esecutivi e amministrativi avrebbero, ancora più limitatamente, stabilito i mezzi.”
Questo è il processo di approssimazione che troviamo nella Carta Fondamentale approvata dall’Assemblea Costituente e mirabilmente ricca di equilibri democratici. Una Costituzione che solo la cattiva gestione dei partiti politici ha reso apparentemente inadeguata rispetto alla complessità odierna. Ma sulla parte propositiva si ritornerà.
Qui preme guardare alla questione della fioritura-moltiplicazione delle Repubbliche. È chiaro a tutti che vengono riesumate le rimembranze delle varie Repubbliche francesi.
Discorso complesso, la cui sfida non deve indurre a una debolezza di approccio.
Limitando, di necessità, lo sguardo ai tempi più recenti dell’esperienza francese, lì il passaggio dalla quarta alla quinta repubblica fu governato da un personaggio forte, il generale De Gaulle, il quale amava definirsi “equationpersonelle”, con riguardo, evidentemente alla sua connaturale propensione ad essere il presidente eletto a suffragio universale dal popolo francese.
Ma quel processo, fondato su un pregiudizio antiparlamentare di De Gaulle, secondo il quale “Le parlementréunit ladélégationdesintéretsparticuliers”, fu portato a compimento per tappe successive. Nel ’58 la riforma costituzionale e nel ’62 il referendum per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Ho un timore, sul quale è bene riflettere e aprire un dibattito, che una norma della riforma costituzionale apparentemente “popolare”, possa facilmente snaturarsi in un sistema costituzionale imperniato sulla supremazia del Governo e in un sistema politico di progressiva delegittimazione del Parlamento. Mi riferisco alla modifica dell’art. 71, che recita:“Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum propositivi e d’indirizzo…”.
Ecco, in un sistema costituzionale disarticolato nei contrappesi democratici, perfino questa norma filodemocratica diviene problematica. Meglio pensare, in assenza della sfiducia costruttiva d’esperienza tedesca, ad una sfiducia che il corpo elettorale possa pronunciare per via referendaria quando possa risultare chiaro che il popolo, a maggioranza qualificata, chieda di essere diversamente rappresentato. In ogni caso, salviamo l’Italia da un bonapartismo legittimato dalla Costituzione.