“In carcere sei costretto a fare i conti con la tua coscienza, qui la vita o la cambi in meglio o in peggio”. Antonio sta scontando una pena per omicidio: a vent’anni una rissa tra ragazzi finita male lo ha portato dietro le sbarre. Ma non si è lasciato andare, non ha visto la sua esistenza svanire tra le celle di una prigione e ha trasformato la sua condanna in un’occasione di riscatto. L’occasione gli è stata offerta da Officina Giotto, la Cooperativa Sociale che ha fatto del lavoro la via maestra per restituire la speranza a chi ha sbagliato.
Se, citando Dostoevskij, è vero che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, quella di Padova potrebbe rassicurare il nostro Paese. Purtroppo non è proprio così, l’esempio dell’opera che Nicola Boscoletto – presidente dell’Associazione – sta portando avanti è, infatti, solo una delle poche eccezioni di un Paese condannato nel 2013 da Strasburgo per il dramma del sovraffollamento carcerario”.
Quella di Officina Giotto è dunque una rarità che dovrebbe diventare strutturale e sistematica in ogni penitenziario. Una realtà divenuta oggetto di studio all’Università Cattolica di Milano e un modello da seguire che non è sfuggito a Paesi come gli Stati Uniti, il Brasile e la Germania. “Dal punto di vista del lavoro abbiamo molto da imparare da voi” ha esclamato Luiz Carlos Rezende E Santos, magistrato di Belo Horizonte, in occasione di un convegno tenutosi il 20 maggio al Regina Coeli di Roma. “Quello che fate è semplicemente fantastico. Noi stiamo cercando di diffondere la vostra esperienza negli States” ha commentato invece lo sceriffo Dart di Chicago in un video messaggio.
A Padova, dunque, si cerca di recuperare i detenuti attraverso il lavoro che diventa strumento per restituire loro la propria dimensione e dignità. Queste persone sono incoraggiate a coltivare un’immagine di sé che sia per loro soddisfacente, opposta a quella del criminale che hanno costruito nelle precedenti esperienze di vita. Solo nel 2014 hanno lavorato a Officine Giotto 175 dipendenti, di cui 140 detenuti, il 16% della popolazione dell’istituto penitenziario. Il 56% di essi doveva scontare pene dai 10 ai 30 anni, mentre il 16% erano ergastolani. Uno schiaffo a chi pensa di costruire la pace sociale aggiungendo dolore al dolore e non conosce i concetti di “pentimento” e “perdono”. ”.
“Quando mi sono accorto cosa avevo fatto, ho sentito la morte dentro” racconta Francesco, finito in prigione per omicidio a 17 anni, che oggi al carcere Due Palazzi si occupa nel settore montaggio di biciclette. “Chiedimi nello specifico cosa è successo, cosa mi ha detto o quello che mi ha fatto arrabbiare e credimi che non te lo so dire – spiega -. Me ne sono reso conto quando tornavo a casa, col pensiero che avevo la fidanzata incinta, che mio padre non c’era e che ero il più grande dei fratelli. Ho distrutto tutto, non ho parole”. Anche per lui a Padova il lavoro si è trasformato nella possibilità di ricominciare: “Quando viene commercializzato un prodotto che hai fatto tu e la gente che li acquista è contenta, beh sono soddisfazioni che non hanno prezzo. Quando vedi una persona che va in bicicletta è come se gliela spingessi tu”.
Sull’esperienza di Padova si è espressa anche Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti: “Occorre che le imprese vengano maggiormente a conoscenza di queste opportunità, e che siano dotate di tutti gli strumenti necessari per poter operare nelle carceri perlomeno senza patirne svantaggi”. Ciò che spezza le catene dietro le sbarre di Padova è la fiducia data ai detenuti e l’occasione attraverso il lavoro di poter imparare a volersi bene, passaggio fondamentale e insostituibile se si vuole restituire alla società delle persone nuove e responsabili. “Esco la mattina dalla mia cella alle 8:30 e non sono un detenuto, ma un dipendente. Ho riavuto indietro la mia dignità – racconta un altro carcerato – e ora posso inviare dei soldi anche alla mia famiglia. Lo faccio per i miei bambini, per mettermi alla prova. Qui chi mi ha incontrato ha scoperto che dietro il mio reato c’è una persona”.