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QUARTIERI SENZ’ANIMA

Colate di cemento, case, palazzi, maggior numero di persone nel minor spazio possibile. Guadagno: è la logica che per decenni ha guidato l’edificazione delle nuove “periferie” cittadine. I costruttori progettavano strutture poco costose e molto remunerative. Poco importava se quegli spazi abbrutivano chi li andava ad occupare, se assomigliassero più a celle di alveari che a “ripari” per esseri umani. L’imperativo era uno solo: fare soldi.

Il concetto, prima ancora che urbanistico, è umano. Periferia vuol dire “ai margini”, e infatti in quelle case ci finivano coloro che erano ai margini della società. I più poveri, i cosiddetti delinquenti, le persone difficili. Che non meritavano certo attenzione, figurarsi un quartiere che mettesse la persona al centro del progetto.

In molti casi è ancora così. Ne è un esempio Corviale, comprensorio a pochi chilometri dal centro di Roma, sistemato là dove la campagna iniziava il suo dipanarsi; un edificio lungo un chilometro in cui vivono circa 8.500 persone. Ma non è l’unico caso: c’è il Forte Guezzi di Genova, o il Rozzol Melara a Trieste – detto il Quadrilatero – o ancora il quartiere Zen di Palermo.

E non è nemmeno solo un problema italiano; in certi paesi del Sudamerica – ad esempio – paradossalmente è il contrario: vivere al centro significa essere abbandonati, i quartieri signorili sono all’esterno. Ma il concetto è lo stesso: l’attenzione urbanistica non esiste per i più deboli.

Da queste logiche costruttive un componente è rimasto sempre escluso: la persona. Gli individui altro non sono stati considerati che aggregati sociali, prodotti di scarto. Da sistemare negli scaffali, perché questo sono gli “appartamenti” a loro assegnati. Esseri umani alla stregua di polli in batteria.

Per non parlare della distruzione senza scrupoli degli spazi verdi, fagocitati da quintali di asfalto, costruzioni che mai hanno preso in considerazione l’ecosostenibilità. In questo quadro a tinte fosche, però, sembra che qualcosa stia cambiando: l’ingegnere senza scrupoli prezzolato dal palazzinaro è sempre più spesso sostituito da architetti, che non hanno per obiettivo quello di costruire ma “riqualificare”. Ovvero trasformare i quartieri già esistenti per poter migliorare la qualità della vita di chi li abita, con il minimo impatto per l’ambiente. Uno schiaffo a chi ha sempre creduto che la logica del denaro dovesse sempre imporsi sul valore umano.

Ne è convinto anche Fabio Sacchi, presidente dell’Ordine degli architetti di Roma, per il quale “il recupero del patrimonio urbano della nostra città è fondamentale se vuoi essere un architetto”. Il concetto è anche la chiave di volta per mantenere le risorse, che “non sono illimitate”. Nel panorama della Capitale, spiega, ci sono moltissime zone dette “brownfield”, ovvero aree già costruite ma dismesse. A un primo sguardo possono sembrare dei “mostri” edilizi, scheletri di cemento armato senza utilità, ma proprio un riutilizzo di questi può portare un grande valore aggiunto alla città, come si è visto per l’ex Mattatoio o il centro Polifunzionale Appio I, divenuti musei, strutture di aggregazione sociale, aule per l’università. Anche perché, ricorda Sacchi, strutture come il Serpentone di Corviale sono dei veri e propri “monumenti della modernità”, e quindi valorizzarli “è la strada giusta da percorrere”. “Proprio per questo nella Capitale abbiamo organizzato una conferenza stampa per presentare il secondo numero della rivista AR, in cui architetti e specialisti discutono del tema”.

Dunque non abbattere, ma trasformare, mettendo l’uomo al centro dell’idea di città. Nemmeno a dirlo, il problema più grande che va a scontrarsi con i grandi ideali architettonici è la burocrazia, che spesso si impone bloccando progetti, tagliando i fondi o semplicemente complica a tal punto la realizzazione un’idea da renderla impossibile.

Nonostante questo il recupero delle aree urbane è già da alcuni anni il motore del 70% del settore edilizio. Proprio Corviale, ha ricevuto dalla Regione una grande somma per un concorso internazionale finalizzato alla sua rigenerazione. Non solo, sempre per questa zona sembra che si siano sbloccati dei finanziamenti per il progetto “chilometro verde” (dell’architetta Guendalina Salimei, protagonista anche di un film) che dovrebbe tagliare orizzontalmente l’intero edificio per ospitare servizi, luoghi di incontro e di scambio.

Per il riuso delle periferie cittadine ci sono sempre più incentivi statali e europei che vogliono spostare l’attenzione dalla città al cittadino, per una qualità di vita a cui tutti hanno diritto. Senza umanità, il profitto è sterco del diavolo.

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