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L’in-giustizia di popolo

burocrazia e corruzioneLord Acton diceva: “Il potere corrompe, che il potere assoluto corrompe assolutamente”. Il pensiero del filosofo anglo-napoletano è tuttora attuale ed è sotteso alla opzione culturale, prima che politica, dei nostri padri costituenti, che hanno voluto una magistratura indipendente ed autonoma da ogni altro potere pubblico o privato.

Si è discusso in questi anni di una pretesa supplenza della magistratura. Alcuni hanno adombrato un governo dei giudici capace di mettere nell’angolo la rappresentanza popolare. Ritengo fermamente che la detta sovranità vada esercitata in primo luogo tramite il prudente ed accorto lavoro nelle aule parlamentari dai rappresentanti del popolo, vero sovrano moderno.

Il che, però, non può e non consente di rimanere stupiti o peggio di gridare allo scandalo quando la magistratura penale esercita il controllo di legalità ad essa rimesso. Ovvero quando il giudice civile risponde alle istanze sociali colmando un vuoto normativo. Quindi non vi è stato alcun governo dei giudici ma solo, ciò che si è registrato, è stato ed è esercizio, per altro a volte tardivo, di poteri giudiziari che la Costituzione assegna alla magistratura.

Ora la Costituzione vuole che i giudici siano soggetti solo alla legge. D’altro canto la iconografia classica vuole che la giustizia sia bendata. Di certo il modello che la nostra Costituzione disegna non è né quello di un arido burocrate né quello di un protagonista esclusivo della dinamica processuale come di recente ha detto il Presidente Mattarella.

Il magistrato, oggi, non è colui che deve perseguire fenomeni sociali secondo una sensibilità che si pretende esser in grado di comprendere la sensibilità della collettività , ma che di fatto presenta seri e pericolosi rischi di autoreferenzialità tali da delegittimare del tutto la funzione, ma deve esser soggetto sempre più chiamato ad applicare la legge. Ed a tal fine certo non può essere sordo alle dinamiche sociali ed alle relative problematiche, ma non può, non deve – ed in questo è la sua professionalità direi ancor di più l’in sé dell’esser magistrato – farsi condizionare dalle contingenze politiche, interpretando una visione sostanziale del proprio ruolo alla ricerca di un consenso personale che possa far velo alla al alla sua sola soggezione esclusiva alla legge.

Aprirsi, per il giudice al condizionamento sociale, farsi carico delle ricadute delle proprie decisioni – è di soli pochi giorni fa una discussione sulla espressione del Vicepresidente del CSM Legnini del magistrato “in sintonia con le aspettative dell’Italia” – mette a serio rischio un bene superore; quello della certezza del diritto.

Il rischio reale è quello di una lettura personalistica della realtà anche svincolata dal dato legislativo, quello di creare un magistrato che legga secondo una propria visione il volere di una collettività che, invece, si esprime solo attraverso l’opera del Legislatore che parla attraverso le norme che, ovviamente, devono esser certo sempre interpretate da chi è calato in una realtà storica e sociale.

Superare questa chiara struttura del nostro sistema istituzionale non renderebbe in alcun modo differente il politico, che al compito di leggere la sensibilità e guidare la collettività è chiamato, dal magistrato che trae la propria legittimazione non dal consenso popolare, ma dalle proprie capacità tecniche e professionali.

Non comprendere questo rischia di far scivolare il sistema in una confusione di ruoli, in un meccanismo disordinato ove le sovrapposizioni di competenze e di rappresentatività delegittimerebbero l’intera istituzione.

Paolo Auriemma – Pubblico Ministero

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