La legge elettorale è una legge ordinaria non costituzionale, ma ne ha la valenza, perché va a toccare direttamente i fondamenti dell’azione politica. Su questi temi il confronto è sempre molto serrato perché ciascuna parte politica cerca di ottenere dei risultati che non la penalizzino.
Per ciò che concerne l’Italicum, ritengo che il ricorso alla fiducia sia fuori luogo. Il governo può utilizzare quello strumento su leggi che siano in qualche modo ricollegabili all’azione dell’esecutivo. Solo in questo caso ha senso chiedere la fiducia. Sul piano di una legge che vale come una riforma costituzionale, invece, porre la fiducia è un modo per forzare la mano ai parlamentari. In questo senso non è un atteggiamento giusto. Va però detto che questo strumento serve ad ottenere che il Parlamento si pronunci e non determini sempre quel mancato approdo alle soluzioni finali a cui siamo stati abituati.
Nel merito della legge elettorale, non vedo pericoli di derive autoritaristiche. Forse il dubbio nasce perché si tende a sovrapporre le due questioni attualmente aperte che stanno, giustamente procedendo parallelamente, che sono quella della nuova legge elettorale con quella della riforma costituzionale che prevede l’abolizione del Senato e un certo, ma a mio avviso ancora blando, rafforzamento delle prerogative del governo. Forse è questa sorta di commistione tra i due percorsi che può portare all’equivoco e alla paura.
Ma la legge in sé non mi sembra che riveli niente di tutto questo, è un sistema come un altro. Certo, c’è un premio di maggioranza: c’è chi dice sia l’unico modo per garantire la governabilità, altri dicono che è un abuso perché attribuisce un vantaggio immeritato che non corrisponde poi al numero di voti conseguiti. Su questi presupposti si dibatte in aula, ma è un fatto che finché siamo stati legati al sistema proporzionale che frammentava la rappresentatività tra un numero elevato di partiti (e quindi poi per giungere alla maggioranza occorrevano aggregazioni eterogenee, favorendo la continua instabilità) i risultati non si possono considerare di alto livello; e quindi forse l’idea di concedere qualcosa alla corrispondenza perfetta tra numero di voti e seggi, a favore di un sistema che va a premiare chi ottiene una maggioranza relativa ritengo sia una soluzione equilibrata.
Un’ultima considerazione sul tema della riforma costituzionale: a mio avviso il fatto che si dovesse passare ad un sistema monocamerale è un passaggio sacrosanto. A settant’anni dalla caduta del regime totalitario l’esigenza di garanzia che aveva suggerito ai padri costituenti di optare per un sistema bicamerale, quindi un controllo rafforzato, è svanita. Il punto è che questa scelta doveva essere una scelta più netta: alla nuova Camera delle Autonomie andavano attribuiti compiti più impegnativi. Ad esempio una possibilità avrebbe potuto essere quella di legiferare sulle regioni, eliminando i consigli regionali. Si sarebbero scongiurati così il più possibile quei conflitti tra la legislazione statale e quella regionale e ci sarebbero stati risparmi sicuri. D’altronde – va detto – in Italia il sistema regionale è un sistema che ha fallito.
Saverio Ruperto – Docente di diritto civile presso la Scuola di specializzazione per le professioni Legali della Terza Università degli Studi di Roma – già sottosegretario agli Interni del governo Monti