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Il tradimento della scienza medica

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La prima domanda che mi sono fatto quando ho appreso la notizia della morte, annunciata, di quella povera ragazza americana malata di tumore, per suicidio assistito dai medici, è stata: come è possibile che oggi, con lo sviluppo della medicina palliativa – con il patrimonio scientifico e culturale che la caratterizza – ci sia bisogno che i medici aiutino a morire una paziente per non farla soffrire nella fase terminale della sua malattia? Per di più quando questa “atroce sofferenza” è solo prognosticata ma ancora non in atto?

I mass media hanno prevalentemente posto l’accento nella vicenda di Brittany sulla sua “libera” scelta, sul diritto di autodeterminazione, a fronte di una prognosi che le era stata fatta con le relative prospettive di sofferenza. Ma è la medicina, innanzitutto, che deve sentirsi interrogata su questa morte, la medicina che ha nella sua specificità il compito di far guarire i malati (spesso), di alleviare le loro sofferenze quando non è possibile guarire (nella maggior parte dei casi), di prendersi cura (sempre). Non si può mai dire, dunque, che non c’è più nulla da fare, si tratta di trovare la cosa giusta da fare.

Dove è finita la medicina quando i medici si prendono cura mediante l’inoculazione di un farmaco letale ancorché sia richiesto dalla paziente stessa? Quando prospetta il dare la morte come una delle diverse cose che si possono fare di fronte ad una malattia evolutiva, come una risorsa del suo armamentario terapeutico? Effettivamente, assecondare le richieste di morte dei pazienti diventa economicamente vantaggioso. Anticipare di alcuni mesi la morte di un paziente con una malattia cronica evolutiva fa risparmiare un mucchio di denaro in farmaci e assistenza. E a questo punto, quale stimolo rimane più per i ricercatori di trovare nuovi (costosi) rimedi per la terapia del dolore e le cure palliative, se è più facile ed economico fare l’eutanasia e il suicidio assistito?

Eppure, l’Assemblea Medica Mondiale, la più alta autorità etico-deontologica dei medici, ha più volte ribadito nelle sue risoluzioni (a Marbella nel 1972, a Divonne-les-Bains nel 2005, a Bali nel 2013) che il suicidio assistito dal medico, come pure l’eutanasia, sono fondamentalmente incompatibili con il ruolo del medico e sono dunque non etici. Non sono atti medici, dunque, ma al contrario sono atti che esprimono l’assenza di qualsiasi relazione di cura, che dicono della rinuncia della medicina di prendersi cura dei pazienti.

E Brittany, infatti, è stata lasciata sola dalla medicina: accanto a lei si sono viste le associazioni favorevoli all’eutanasia e al suicidio assistito, che l’hanno facilitata nel trovare il luogo dove poteva dare attuazione alla sua scelta. Non sembrano esserci stati, invece, medici che le abbiano prospettato le cure palliative, l’accompagnamento solidale, della paziente e della famiglia, nelle ultime fasi della vita, la sedazione profonda come strumento per eliminare l’ansia e l’angoscia delle ultime ore.

Se l’eutanasia, attraverso i casi Brittany o i casi dell’eutanasia pediatrica in Belgio, sta entrando prepotentemente prima nelle coscienze dei cittadini e poi nei sistemi giuridici del mondo occidentale sarà anche colpa dei medici e della medicina che assecondano le richieste dei pazienti in nome di una presunta scelta libera, ma che è fatta però in condizioni di fragilità e vulnerabilità di cui i medici e la medicina dovrebbero farsi carico, con amorevole presenza e accompagnamento e non la cancellazione delle loro esistenze.

Antonio G. Spagnolo
Professore Ordinario di Medicina legale e delle assicurazioni – Insegna Bioetica nei corsi di Laurea specialistica
Policlinico Gemelli – Università Cattolica

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