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MAMME EROICHE

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Siamo abituati nei Paesi occidentali a immaginare la mamma come l’” angelo del focolare”. Più o meno chioccia, e comunque punto di riferimento dell’educazione dei figli, intendendo questo compito come quello primario. Poi certo c’è il lavoro e la vita privata, ma arrivano solo dopo quello di indicare al proprio bambino qual è la strada giusta da seguire.

Ci sono però madri nel mondo che hanno altre priorità: quelle di insegnare a schivare le pallottole, a evitare di saltare in aria calpestando una bomba, a sopravvivere senza cibo né acqua, a resistere alle alluvioni. Sono le mamme eroiche dei Paesi in via di sviluppo, di quelli martoriati dalla guerra, dalle carestie, dai disastri naturali, dal fondamentalismo.

In questo caso non serve snocciolare numeri e cifre. La forza delle storie è più importante delle statistiche. Come quella di Rama, 23 anni, sopravvissuta con il figlioletto Hari di 45 giorni al terremoto del 25 aprile scorso che ha colpito il Nepal, causando più di 7000 morti. Ora vive in una tenda nel campo allestito per gli sfollati a Tundikhel a Kathmandu, immaginando un futuro.

O quella della kenyota Pamela con sua figlia Ekitela: “Ciò che mi rende più felice è essere riuscita ad avere il bestiame: adesso ho un litro di latte al giorno per la mia bambina. Guardando i miei figli, si vede che stanno molto meglio”.

Poi c’è Sabina e la figlia Sejal, di un anno e mezzo, che vivono nel villaggio di Dola, in Nepal: “Mio marito e io stiamo insieme da quando eravamo adolescenti – racconta -. Ora lo incontro solo una volta all’anno, non ha nemmeno visto nascere la bambina. Lavora come domestico per una ricca famiglia indiana. Se avessimo potuto avere raccolti migliori, non sarebbe dovuto partire”. Una denuncia che suona come uno schiaffo all’Occidente. Non è infatti solo “destino” quello che spinge queste mamme ad andare oltre i limiti dell’essere umano; c’è una buona dose di disinteresse da parte dei Paesi cosiddetti ricchi.

Limar, ad esempio, è la prima figlia di Liqaa e Bassel, rifugiati siriani nel campo profughi di Zaatari in Giordania. “Il giorno che è nata mia figlia è stato bellissimo. Mi è però mancata molto la mia famiglia e ho pianto, ma tornare a casa non è possibile. Avrei voluto farla nascere in Siria, ma era troppo pericoloso. Prima della sua nascita la vita nel campo mi pesava meno. Adesso mi rendo conto di quanto sia difficile crescere un bambino qui: il giorno è troppo caldo, la notte troppo freddo ed è difficile trovare le medicine di cui si ha bisogno. Spero che la comunità internazionale aiuterà il popolo siriano a trovare una soluzione politica alla crisi che ci permetta di tornare a vivere la nostra vita nel nostro paese”.

Le atrocità delle guerre distruggono intere generazioni, e le madri diventano un presidio naturale di sopravvivenza.  Ma anche la natura può provocare disastri… Adoaga vive con i suoi 8 figli nella regione del Guéra, in Chad; è vedova e si prende cura anche di tre suoi nipoti. La siccità ha colpito l’intera regione. Nelle sue parole un coraggio e una tristezza infiniti: “Se riuscissi a mangiare più spesso, sarei più forte”.

Fa riflettere anche la storia di Marina, 23 anni, del Guatemala; così magra che quando sorride sulle guance compaiono dei grossi solchi. Ha due figlie, Yeimi di 6 anni e Jessica di 2, che a causa della malnutrizione cronica ha lo stomaco dilatato ed è grande come una bambina europea di un anno. Il suo terzo figlio è nato morto, a causa della malnutrizione in gravidanza.

E ancora in Vietnam Nguyen Thi Hoa, con sua figlia Vo Phuong Thuy di un anno. Dopo che le inondazioni hanno distrutto la casa e il raccolto di riso, la sua famiglia si è indebitata e il marito è stato costretto a cercare lavoro come operaio a Hanoi.

Infine l’ultima storia, quella di Mahawe, incinta di otto mesi e già mamma di un bambino di due anni, raccoglie l’acqua dal fiume nella Repubblica Democratica del Congo per portarla a un punto di potabilizzazione installato da Oxfam, dove verrà trattata con il cloro per renderla sicura da bere. “Ogni giorno – racconta – prendo 4 taniche d’acqua, che uso per bere e lavare il bambino e i vestiti. E’ un lavoro duro per chi è incinta, e sono molto stanca. Per fortuna ora non ho paura del colera, che potrebbe far morire me e il mio bambino”. Ecco le priorità: acqua per evitare la malattia mortale. Il fatto che si debbano percorrere chilometri trasportando fusti stracolmi diventa secondario. Un pensiero va dedicato a queste mamme, augurando loro che i figli per i quali fanno questi enormi sacrifici abbiano un futuro migliore.

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Macario Tinti: