In questo periodo di guerre definite impropriamente “di religione”, il simbolo della Croce torna a mostrarsi in tutta la sua forza. L’uccisione dei cristiani copti trucidati dall’Isis mentre invocavano il nome di Cristo rappresenta l’essenza stessa del martirio. Dopo duemila anni le logiche del mondo non sembrano essere cambiate.
Ma anche la nostra società, apparentemente cristiana ma spesso pervasa da idoli quali il consumismo, il materialismo e l’edonismo sfrenato, continua a provare del disagio, spesso una vera e propria ribellione, verso l’emblema più importante e noto della storia. Siamo molto lontani dalle città ideali immaginate da Tommaso Campanella, siamo distanti anni luce da quel concetto di equità e tolleranza che dovrebbe accomunare l’Uomo come appartenente allo stesso genere, al di là del censo, della casta, del colore della pelle, della religione.
Non abbiamo la consapevolezza di essere minuscoli esemplari sistemati su una palla sparata nello spazio a 108 mila chilometri l’ora, non abbiamo contezza del nostro essere poca cosa. Pretendiamo di essere come dei, gestendo le nostre vite, giudicando quelle degli altri e a volte arrogandoci anche il diritto di farle esistere o meno. Ecco allora che ogni giorno l’umanità mette in croce qualcuno. I cristiani in Siria e in Iraq, ad esempio, costretti ad abbandonare le proprie case, martirizzati dalla violenza dell’Isis; oppure tutti quei villaggi distrutti dalla furia di Boko Haram, che utilizza l’omicidio, i rapimenti, gli stupri in nome di un distorto concetto di Islam.
Ma attenzione a pensare che le croci di oggi siano solo quelle macchiate di sangue. Anche nel nostro vivere quotidiano, immersi in un Occidente democratico, siamo spesso quelli che alzano il legno per inchiodarci qualcuno: i bambini di strada, gli zingari, i drogati, gli ex carcerati, i poveri, le prostitute; a tutti questi non è concessa la possibilità di vivere ma solo di sopravvivere. Uno schiaffo alla dignità di essere umano.
Immergiamoci nei numeri. La cronaca di questi tempi ci racconta della lettera N con cui il sedicente Califfato ha marchiato le case dei cristiani di Mosul prima di costringerli alla fuga. Una lettera che intende definire “Nasara” come Nazareni, cioè cristiani; un simbolo che il mondo ha imparato a conoscere non come segno della vergogna, come intendevano i terroristi, ma della fede profonda dei cristiani perseguitati. Ogni anno “Porte Aperte” stila una “lista nera” dei Paesi più a rischio per i cristiani, un fenomeno in crescita se già nel 2014 si stimano esserci state 4.344 vittime e 1.062 chiese attaccate.
805 milioni di persone nel mondo, invece, non hanno abbastanza da mangiare. La stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame (709 milioni) vive nei paesi in via di sviluppo, dove il 13,5% della popolazione è denutrita. Un Calvario quotidiano per la semplice sopravvivenza.
Chi porta la sua croce ogni giorno sono anche i bambini di strada; nel mondo potrebbero essere tra i 100 ed i 150 milioni ed è verosimile che il loro numero sia in aumento, per la crescita della popolazione globale e dell’urbanizzazione. Bisogna usare il condizionale “potrebbero”, perché se sono tra quelli fisicamente più visibili, dato che trascorrono gran parte del loro tempo appunto per le vie delle città, sono per assurdo anche tra i più invisibili, sfuggono alle statistiche, ai censimenti, alle istituzioni, sono esclusi da programmi e politiche statali.
Facendo un rapido calcolo delle croci appena descritte troviamo numeri da far rabbrividire, così alti che sembra impossibile poterli ignorare. E invece a questi si aggiungono quelli degli ex detenuti abbandonati a se stessi, dei malati di mente, degli zingari oggetto di discriminazione, dei nuovi poveri rifiutati dalla società. Milioni di sofferenze ben visibili che si ergono davanti ai nostri occhi – come Gesù sul Golgota – ma che, complici i governi dei diversi Paesi, facciamo finta di non vedere.