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“A chi posso paragonare la gente di questa generazione”

«È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri» «Simĭles sunt puĕris sedentĭbus in foro et loquentĭbus ad invĭcem»

Mercoledì 16 settembre – XXIV settimana del tempo ordinario – Lc 7, 31-35

In quel tempo, il Signore disse: «A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”. È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”. Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».

Il commento di Massimiliano Zupi

«La gente di questa generazione» – che poi è ogni generazione, anche la nostra – è paragonata ai bambini. Certo, non al bambino che è immagine del regno per la sua piccolezza e capacità di affidamento (Mt 18,2-4; 19,14). Qui si considerano i bambini sotto un altro aspetto del loro modo di essere: il loro cosiddetto essere “capricciosi”. Ora, cos’è il capriccio?

È appunto il volere ostinatamente altro rispetto a ciò che la realtà offre: non voler ridere nel tempo di festa, dice Gesù, né piangere nel lutto. Si tratta di un atteggiamento di opposizione e di scontentezza permanente, perché la realtà non si adatta e non si piega al proprio io. A questi bambini capricciosi Gesù contrappone i figli della sapienza. Sono coloro che hanno imparato l’obbedienza: ad accogliere e a prendere benedicendo, anziché respingere maledicendo.

Come dice san Paolo riferendosi a Gesù nella Lettera agli Ebrei (5,7), sono coloro la cui virtù, la cui forza è il «pieno abbandono» (la «pietà», nella precedente versione CEI), vocaboli con i quali si è tradotto il greco eulábeia: alla lettera, la capacità di «prendere bene» la vita, anche e soprattutto nelle sue contrarietà. Ancora una volta, infatti, come mirabilmente insegnato nel capitolo ottavo dei Fioretti al termine del racconto nel quale Francesco chiede a frate Leone cosa sia perfetta letizia, essa è aver vinto su sé stessi.

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