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“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola”

«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa»
«Non pro his autem rogo tantum, sed et pro eis, qui creditūri sunt per verbum eōrum in me, ut omnes unum sint» 

Settima Settimana di Pasqua – Gv 17,20-26

In quel tempo, [Gesù, alzàti gli occhi al cielo, pregò dicendo:] «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Il commento di Massimiliano Zupi

In questi ultimi giorni del tempo di Pasqua, la liturgia propone la preghiera sacerdotale contenuta nel capitolo diciassettesimo del Vangelo di Giovanni, al termine del racconto dell’ultima cena. È una preghiera davvero universale: nella sua conclusione, è per le generazioni future, per coloro che devono ancora nascere e che conosceranno Gesù solo grazie alla testimonianza dei suoi discepoli.

È dunque anche per noi, che oggi ascoltiamo questo Vangelo. Se i destinatari della preghiera sono tutti gli uomini, compresi noi, il frutto invece è l’unità: che siamo una cosa sola, come il Padre e il Figlio sono una sola cosa. Questa unità non è indistinzione; è piuttosto inabitazione reciproca: io resto altro da te, eppure tu sei in me ed io in te. Io sono autonomo da te, eppure tu sei la mia consistenza: senza di te non posso vivere. Come scriveva Marziale, «nec tecum possum vivĕre nec sine te», «né con te né senza te posso vivere»; o forse meglio: con te e senza di te contemporaneamente.

Questa unità è il paradosso dell’amore: esperienza di un’intimità tanto grande in un’estraneità altrettanto insuperabile. Ma anziché costituire un difetto, un simile paradosso rappresenta la forza dell’amore: un’avventura infinita di conoscenza di sé e dell’altro, di sé nell’altro e dell’altro in sé. È il segreto della vita stessa di Dio, della sua eternità, rivelato nei Vangeli: mistero di un’unità trina e di una trinità una, di tre Persone che rimanendo tre sono realmente una cosa sola.

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