«Chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro» «Et advŏcans parvŭlum, statŭit eum in medĭo eōrum»
Venerdì 2 ottobre – Memoria dei Santi Angeli Custodi – Mt 18, 1-5.10
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. […]. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
Il commento di Massimiliano Zupi
«Chi è più grande nel regno dei cieli?»: è la domanda che pongono i discepoli. Preoccupazione di chi si trova in uno stato di insicurezza emotiva, di chi soffre di un complesso di inferiorità. In effetti, l’uomo necessariamente verte in questa condizione: vive, ma non possiede la propria vita; anzi, sente sfuggirla di continuo (Mc 5,25); si regge sulle proprie gambe, ma ha bisogno dell’approvazione e della stima degli altri per sentirsi bene, a posto (Lc 14,7).
Ecco allora che divenire il più grande è la via per liberarsi da questo impaccio, per trovare l’ossigeno di cui ha bisogno: acquisendo ricchezze che gli permettano di avere quello che vuole, potenza con la quale sottomettere e dominare gli altri, fama per garantirsi il plauso di tutti. Ma è poi davvero questa la via che lo fa respirare? O non piuttosto quella che aumenta il senso di vuoto e di solitudine? Ricchezza, fama e potenza non sono come stare in cima ad una piramide, con la consapevolezza che è solo una illusione e che da un momento all’altro tutto franerà?
Provocatoriamente, Gesù risponde alla domanda dei discepoli ponendo al centro un bambino; alla fine, si identificherà addirittura con quel piccolo (v.5). Il gesto è tanto più scandaloso se si pensa che, a differenza della nostra società, giustamente definita puerocentrica, a quel tempo i bambini valevano nulla: non a caso, in greco, lo stesso vocabolo, «pãis», significava sia «fanciullo» sia «servo». Contro le convenzioni del tempo, dunque, Gesù pone nel mezzo un bambino ed invita i discepoli ad assumere il suo cuore: quale? Un bimbo è piccolo e, a differenza dei discepoli, non vuole diventare grande.
Sta bene infatti nella sua condizione di minorità, di dipendenza: gode dell’essere curato, preso in braccio, custodito. Ecco, entrare fin d’ora nel regno dei cieli significa accettare questa condizione e gioirne: accettare che la vita non ci appartenga, non sia nelle nostre mani, non la teniamo sotto controllo; accettare i propri limiti e fragilità, e fare di tutto questo l’occasione per sperimentare la paternità premurosa di Dio, realizzata anche attraverso la custodia esercitata dagli angeli.