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Mattia, il genio diciottenne che parla con lo spazio

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Lo ingegno umano, guardando più lontano, avendo ben compreso che tutti i monumenti umani per violenza di tempeste o per vecchiezza alfine muoiono […] scrutando il cielo affidò a quei noti eterni Globi di chiarissime Stelle i nomi di coloro che per opere egregie e quasi divine furono stimati degni di godere insieme agli Astri l'eternità” scriveva Galileo Galilei al granduca di Toscana, Cosimo II de' Medici, nella prefazione al suo trattato di astronomia, il Sidereus Nuncius (1610). Lo scienziato toscano forse non immaginava che, a distanza di oltre quattro secoli, avrebbe ispirato un ragazzo di diciotto anni. Mattia Barbarossa non ama le etichette, né crede di essere un giovane prodigio, come è, invece, considerato dall'opinione pubblica. Anzi, nella conversazione con In Terris, di prodigioso colpisce la normalità con la quale si presenta, la semplicità che traspare della sua visione delle cose, cristallina come il mare di Napoli, da cui proviene: quella stessa dote che coltivava l'umanista Leonardo Da Vinci nella sua indagine sulla natura. E se i poster dello scienziato von Braun e dell'astronauta Samantha Cristoforetti nella sua camera tradiscono una smisurata passione per lo spazio, questo ragazzo ordinario sfrutta ogni occasione per scrutare lo straordinario celato nella realtà circostante: il suo vero segreto per restare “con la testa tra le nuvole”.

Mattia, molti ti definiscono un genio. Tu che ne pensi?

“Si tratta di un'affermazione del tutto iperbolica. Io non mi sento superiore a nessuno in alcun modo. Quello che posso dirti è che mi riconosco come un essere tremendamente curioso e affascinato per le cose che faccio”.

Come è nata la passione per lo spazio?

“Certamente non è stata una cosa innata, ma l'ultima di svariate passioni. Da piccolo sono stato appassionato di vulcanologia e sono salito sul Vesuvio dieci volte, poi mi sono appassionato di treni e sono andato a vedere tutti i musei dei treni, anche ad Utrecht, in Olanda. Sono stato anche appassionato di microbiologia e mi sono creato in casa dei terreni di coltura per cercare di coltivare le mie colonie batteriche. Inesorabilmente, sono finito allo spazio e, forse, credo che nell'indagine sullo spazio la curiosità che mi accompagna abbia avuto il suo exploit. Pensa che a scuola gli insegnanti mi vedevano con una penna e un foglio a scrivere e dicevano che stavo sempre 'con la testa fra le nuvole'”.

Spesso molti scienziati riconducono le loro passioni a un evento scatenante. A te è successo?

“A dire il vero, non c'è un episodio memorabile che mi ha fatto cambiare strada clamorosamente. Sicuramente posso dire di avere avuto la curiosità di voler esplorare sempre oltre e, quando ci riuscivo, leggevo sempre di più su un argomento. Poi, quando le informazioni cominciavano a diventare più ridondanti, passavo a un altro argomento. In sostanza, andavo nel posto con più curiosità in assoluto”.

C'è stato un momento in cui la curiosità non ti bastava più?

“Sì, a un certo punto la curiosità non mi bastava più nel senso che ho sempre avuto due tipi di passioni. Conoscere è la prima , la seconda è trasmettere le emozioni che provo nella scoperta. La divulgazione scientifica l'ho fatta da bambino. A 13 anni ho tenuto la mia prima conferenza, mi chiamarono anche al planetario in Italia per una conferenza sull'esplorazione spaziale. La ricerca scientifica, invece, è partita con i primi concorsi, all'inizio puramente educational, vale a dire di tipo educativo, come quelli rilasciati dalle agenzie spaziali e di ricerca per stimolare i ragazzi. Il primo vero concorso, vero cioè con impatto sul cambiamento, è stato Lab 2 Moon, indetto da un'azienda indiana relativo alla progettazione di un esperimento scientifico da mandare a bordo di una sonda lunare che avevano sviluppato. Quando ho partecipato al concorso avevo 16 anni“.

Che qualità ci vogliono per conseguire un Premio all'ESA (Agenzia Spaziale Europea)?

“Beh, fino al primo brevetto non voglio definirmi inventore, però ci siamo quasi. Come dicevo poc'anzi, sono sempre stato curioso sin da bambino, e mi è sempre piaciuta la scienza. Vengo da una famiglia normalissima del ceto medio di Napoli, mia madre è ragioniera, mio padre lavora nell'assistenza clienti di una piccola azienda informatica, entrambi non particolarmente interessati alla scienza. Io, al contrario, sono un pò uscito come la mela caduta lontana dall'albero, però grazie all'incoraggiamento della famiglia, ho potuto coltivare le mie passioni e alimentare la curiosità”.

Che cosa devi alla tua terra natìa?

“A Napoli devo sicuramente la sfacciataggine. Nel mio campo significa parlare di materie senza preoccuparsi di non essere in possesso di qualifiche come la laurea. Ne sono una dimostrazione vivente. In Italia, invece, capita che o non si ha padronanza o, se la si ha, si è timidi. In questo modo non si va da nessuna parte”. 

Puoi spiegarti meglio?

“C'è molta timidezza nella posizione delle proprie idee. Chi lo fa in modo sfacciato, molto spesso non ha veramente idee concrete. Chi lo fa in modo più timido, magari ha anche delle ottime idee ma la timidezza vince su ogni possibilità di esprimere la propria ambizione, quindi inesorabilmente finisce che tutto quello che si fa non si propaga e trasmette agli altri, ma resta per se stessi”.

All'estero ti sei approcciato ad altre realtà, invece?

“Sono stato in India e ho notato una disparità a livello culturale che è marcata rispetto a quella italiana. Voglio, cioè, dire che in India c'è un'apertura mentale diversa rispetto a quella che c'è in Italia. Sarà perché i ragazzi sono quelli che promuovono l'innovazione, ma lì la disparità tra le generazioni è minore. Ora mi trovo a cavallo tra due realtà: quella accademica e quella dei ragazzi. In Italia non ci sono realtà vastissime di ragazzi che si occupano di scienze e il distacco che c'è tra i due mondi è tangibile. In India, al contrario, la realtà è diversa perché il legame col mondo accademico è più stretto. Nel Belpaese siamo un pò fuori dalle righe…”

E quali consigli daresti ai tuoi coetanei?

“Quello di buttarsi. Il secondo concorso internazionale che feci con l'Esa – avevo 17 anni – lo vinsi dopo perché tenni una conferenza via Skype con la Presidente della Camera di Commercio di Huntsville in Alabama in un inglese che all'epoca, come puoi immaginare, non era sciolto. Buttarmi è una cosa di cui sono grato perché, se ho potuto fare le cose, forse le ho fatte per stupidità e follia, un pò di sana incoscienza. Mi sono fatto male altrettante volte, è vero, ma quella volta che mi sono buttato e ho accolto i favori della sorte è andata bene”.

Hai incontrato difficoltà nel tuo percorso?

“Di difficoltà ne ho incontrate diverse. A livello accademico, un ragazzo senza qualifiche viene ovviamente bistrattato dalla comunità, perché sono necessari titoli e qualifiche. Le scuole italiane non permettono di accedere a strumenti di formazione, mentre all'estero spesso le stesse scuole superiori hanno le credenziali d'accesso alle riviste scientifiche e di settore. Tipico dall'Italia è, in ultima analisi, la difficoltà ad accedere a mezzi e finanziamenti per portare avanti i propri progetti. L'ho vissuto sulla mia pelle: ho inizialmente lavorato da casa al mio progetto, senza avere gli strumenti e ancora adesso fatico. Non è, poi, facile sopportare una mole di lavoro intensa e sentirsi esclusi”. 

A proposito di esclusione, come ti sei relazionato negli anni con i tuoi coetanei?

“Prima del concorso, dai miei compagni di classe sono poco tollerato per la mia educazione. Dopo i primi concorsi, la mentalità è cambiata. Ho avuto rifiuto anche da parte di alcuni professori, ma ho imparato a fare mio il motto latino necessitas artium mater, 'la necessità è la madre delle arti'. C'è, però, gente che ha creduto in me fin dall'inizio. Come i miei professori di Fisica, che mi hanno dato un grandissimo aiuto nel coltivare la passione per la fisica. Il prof. Monaco mi ha fatto addirittura tenere le lezioni di astrofisica, cosmologia e fisica nucleare e mi ha consentito di tenere lezioni per buona parte dell'anno alla classe, permettendomi di spiegare tutti i processi del nucleare e subnucleare e astrofisici che avvengono nello spazio. Come ti ho detto, la passione che ho per la divulgazione scientifica è tanta e non ha fatto altro che rendermi consapevole di voler trasmettere agli altri, seppur in minima parte, la mia fame di conoscenza per i processi che avvengono in natura. Per ciò che concerne gli ostacoli incontrati e le esperienze di rifiuto, credo che siano stati un modo di adattarsi e sviluppare un metodo di ragionamento diverso”.

A tutti i ragazzi che smorzano la loro curiosità, cosa diresti?

“La frase che ripeto sempre è l'uomo è una specie curiosa. Noi non siamo umani perché più intelligenti delle altre specie o per guerra o comunicazione. Siamo tali perché proviamo piacere nella conoscenza. Uno scimpanzé non chiederà mai perché il cielo è blu, anche se sa parlare il linguaggio dei segni. Se, dunque, siamo umani è perché proviamo piacere nel conoscere. E allora questo significa che dobbiamo portare avanti la curiosità, che abbiamo sin da bambini, perché ci ha portato più lontano di qualsiasi altra specie. Purtroppo il mondo ci insegna a perderla, spesso lo fanno i genitori o il mondo circostante. Invece dobbiamo fare tutto il possibile per non offuscarla mai ed essere determinati a portarla avanti. Se noi non avessimo coltivato la curiosità, credo che oggi penseremmo che il mondo è piatto. Quindi, quello che posso dire è siate curiosi, non importa quanto una sfida sia difficile: è solo una questione di tempo”.

Quale progetto stai portando avanti?

“Per il 2021 con la mia piccola azienda Sidereus Space Dyamics stiamo sviluppando dei satelliti transorbit che dovrebbero circumnavigare la luna. L'obiettivo è quello di sfruttare l'economia per fare esplorazione spaziale, ma anche  sviluppare le tecnologie spaziali per uso terrestre. Pochi lo sanno, ma il programma Apollo, che ci ha consentito di arrivare sulla Luna, ha portato al rilascio di 30.000 brevetti che hanno letteralmente cambiato la nostra vita – come la pentola a pressione o il velcro, ndr. E poi, prima di morire, ho un altro ambizioso obiettivo”. 

Quale?

“Contribuire al primo polo interstellare della specie. La stella più vicina alla terra è Proxima CentauriProxima Centauri B è un pianetino delle dimensioni grossomodo della Terra che orbita alla giusta distanza e che potrebbe essere il candidato più prossimo all'abitazione della specie umana. Se riuscissimo a realizzare una sonda leggerissima, capace di viaggiare a velocità prossime a quelle della luce, potremmo raggiungere questo piccolo pianeta in 10/20 anni di volo. Così, prima degli anni Cinquanta di questo secolo, potremmo riuscire a vedere la prima fotografia di un pianeta attorno a un'altra stella… sarebbe probabilmente l'evento di questo secolo, come lo sbarco sulla luna lo fu del secolo scorso”.

A proposito di poli interstellari, credi che esista vita extraterrestre?

“Siamo fatti di idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno, gli elementi più comuni dell'universo. La vita non è che una combinazione difficile di questi elementi,  per cui sarebbe improbabile se non ve ne fossero altre nell'universo. Lo scopriremo in tempi umani? Penso di sì, perché lo sviluppo tecnologico sta procedendo a lunghi passi”. 

Invece, come uomo di scienza, qual è il tuo rapporto con l'Infinito?

“Tematiche così profonde vanno esplorate a piccoli pezzi. Posso dire che la nostra unicità è data dalla curiosità, e se siamo qui è per conoscere. Stiamo facendo dei progressi incredibili e ci stiamo rendendo conto di quanto sia straordinario il mondo attorno a noi. Personalmente, non sono credente, ma ritengo che quello che cerchiamo, il senso ultimo della realtà, straordinario tanto quanto consolatorio, sia l'universo stesso”.

In questi mesi, molti tuoi coetanei hanno manifestato contro l'impatto umano al cambiamento climatico. Cosa si dovrebbe fare, secondo te?

“È indubbio che il cambiamento climatico sia una realtà e dobbiamo fronteggiarla come tale. La nostra specie ha raggiunto un tale livello di sviluppo che ora non ci resta che sviluppare la consapevolezza di quello che siamo veramente. Espanderci è inevitabile per la nostra specie e trovare soluzione, come l'eventualità di abitare altri pianeti, credo sia inevitabile. Però non dobbiamo mai dimenticare da dove veniamo, la nostra casa“.

Marco Grieco: