Al cento per cento con la nostra Nazione”. E' stato chiaro il centrocampista del Milan e numero 10 della nazionale turca, Hakan Calhanoglu, che ha provato a mettere a tacere le polemiche su di lui e i suoi compagni, rei di aver utilizzato il palcoscenico calcistico internazionale (in questo caso i match di qualificazione a Euro 2020, peraltro a un passo per la Turchia) per perorare una causa che con lo sport, al netto delle proprie appartenenze patrie, effettivamente c'entra poco. Più o meno quello che deve aver pensato l'Uefa che, per quanto abbia preso con le molle la proposta italiana di togliere la finalissima di Champions League a Istanbul, ha aperto un'indagine a carico della nazionale turca dopo l'ennesimo saluto militare da parte delle Stelle crescenti, avvenuto durante il match con la Francia. E proprio i francesi hanno caldeggiato “sanzioni esemplari” da parte dell'Uefa e chissà che, nell'ambito del procedimento aperto, non salti nuovamente fuori la questione dell'atto finale della massima competizione europea.
Gesti di protesta
Quello turco, tuttavia, è solo uno dei tanti casi che, nella storia dello sport, hanno portato la politica e i suoi derivati a infilarsi in manifestazioni (non solo calcistiche) che, per antonomasia, dovrebbero essere al di sopra di qualsiasi connotazione politica. E se in questo caso il gesto dei turchi costituisce un aperto sostegno a un'operazione di guerra, circostanza non secondaria e inevitabilmente da condannare, è anche vero che segni passati alla storia hanno avuto l'intento opposto, come rivendicare un'appartenenza culturale o anche sostenere la causa di una minoranza etnica vessata. Alle Olimpiadi di Messico '68 il caso di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo classificato nei 200 metri, si materializza una delle proteste più emblematiche della storia sportiva, con entrambi che, a capo chino e pugno (con guanto nero) alzato, inneggiano alle Black Panters contro la discriminazione razziale durante la premiazione. Più recentemente, nel 2017, le star della Nfl, la massima serie del football americano, si inginocchiano durante l'inno nazionale, in aperta protesta contro la politica presidenziale di Donald Trump. C'è poi chi, come il cestista turco dell'Nba Enes Kanter, all'autorità di Ankara si ribella: passaporto stracciato, minacce continue e, come da lui stesso dichiarto, la sua intera famiglia in ostaggio. Per non scomodare poi i casi più clamorosi, come il reciproco boicottaggio fra Usa e Urss alle Olimpiadi di Mosca (1980) e Los Angeles (1984), nonostante qualche segnale di distensione dopo il match di hockey sul ghiaccio ai Giochi invernali di Lake Placid nell'80.
Aquile
Inevitabilmente, forse per mediaticità o qualche controversia sulle rappresentanze nazionali, è il calcio a farsi portabandiera della commistione, quasi sempre fonte di problemi, fra sport e politica. Agli svizzeri Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, ad esempio, il gesto dell'Aquila bicipite ai Mondiali di Russia non ha portato grossa fortuna: il simbolo dell'irredentismo albanese mimato dai due (kosovari di origine) come esultanza ha attirato numerose critiche a livello europeo (minacce comprese) tanto da indurre l'allenatore del Liverpool, Jurgen Klopp, a non convocare l'ex Bayern per il match di Champions di Belgrado contro la Stella Rossa del novembre 2018. Ancora peggio andrà a Georgios Katidis, promettente fantasita greco che, dopo un gol con l'Aek, si esibisce in un saluto nazista che gli costa la squalifica a vita da tutte le nazionali elleniche. Non sarà il primo né l'ultimo caso di braccia tese nel mondo del pallone.
Il match fantasma
Fresco di giornata un match da data rossa sul calendario, passato in sordina perché tenuto nascosto, nonostante la sua portata storica: Corea del Nord contro Corea del Sud, calcio di inizio a Pyongyang per la prima volta dopo 29 anni (l'ultimo match lo decise a favore della nazionale settentrionale l'attuale ct Yun Jong-su). Quasi da paragone con Germania Est-Germania Ovest del '74 se non fosse per alcune sostanziali differenze, come il diverso contesto (quella volta era a un mondiale) e lo scenario: stadio completamente vuoto nella capitale nordcoreana, tanto per dirne una. Qualche personalità (tra cui il presidente Fifa, Gianni Infantino), calciatori impauriti e atmosfera da coprifuoco. Decisamente un'occsione persa, con i giocatori del Sud costretti a non indossare marchi o sponsor “proibiti” e totale assenza di giornalisti stranieri, probabilmente, pare, per lenire eventuali danni d'immagine qualora la più quotata Corea del Sud avesse sconfitto i vicini del Nord. Per la cronaca, il match invisibile è terminato 0-0 e, vista la sua validità per le qualificazioni al Mondiale in Qatar, assegna un punto a entrambe che continuano a viaggiare a pari punti in classifica. Di fatto fianco a fianco, almeno lì.