Era uno meccanico Niki Lauda, nel senso che ragionava con quella precisione che consente all'uomo di dominare sulla macchina. Nel suo caso era la macchina da corsa ma il senso è lo stesso: l'orecchio assoluto che taluni hanno per la musica lui ce l'aveva per il motore, la frizione, il cambio, lo sterzo, il semiasse. Qualsiasi rumore, una minima vibrazione lui la sentiva, nemmeno con l'orecchio: era una sorta di sensazione, la macchina la capiva perché, appunto, era “quel” tipo di meccanico lì, quello che capisce i meccanismi. Ed era questo che lo distingueva dai grandi bolidi umani dell'epoca: Lauda era veloce ma prudente, non aveva la follia al volante di Regazzoni, né l'irruenza dell'amico James Hunt. Nessun altro, probabilmente, avrebbe rinunciato al titolo come fece lui in Giappone nel 1976, quando disse chiaramente che guidare in quelle condizioni averbbe significato ammazzarsi e che, se fosse accaduto, non ci avrebbero guadagnato né lui né tantomeno la Ferrari. Hunt, che quella lucida pazzia ce l'aveva, sotto quel nubifragio corse e si portò a casa il Mondiale, giusto qualche ora prima che Lauda ribadisse che lui, quella decisione, l'avrebbe presa anche il giorno prima. E anche quello dopo. Sempre, in sostanza.
L'uomo e il pilota
Niki Lauda era fatto così, e infatti di Mondiali ne vinse tre, uno dei quali quando tutti lo davano per un campione sul viale del tramonto. Forse, come è stato detto, nessuno si divertiva a guardarlo correre, non sgasava come Hunt e Regazzoni, non azzardava manovre impossibili, non si sentiva nulla di lui fuori dalla pista: eppure tutti lo guardavano guidare, cercando di capire come e perché riuscisse a vincere gare e mondiali. Perché oltre all'abilità nel tenere le quattro ruote incollate sull'asfalto, Niki sapeva anche correre quando serviva. E divertirsi anche se non sembrava. Probabilmente nessuno sarebbe tornato in pista appena un mese dopo un incidente come quello del Nurburgring del 1976, infilandosi un casco speciale per proteggere il viso sfigurato dalle ustioni e correre a Monza piazzandosi quarto davanti a Jody Scheckter. Come Nuvolari al Gp delle Nazioni del 1925, quasi come se non fosse infortunato e nonostante le ferite al volto sanguinassero ancora, Lauda andò a correre “non per vincere ma come allenamento”. Messagio all'amico Hunt, che quel giorno si era ritirato per testacoda. Infortunio o no, quel Mondiale non vinto altro non ha fatto che alimentare la sua leggenda. Perché, allora come oggi, a tutti pare che di non vincerlo lo abbiamo deciso lui.