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Fausto Coppi, il mito di un campione diventato eroe

Il suo primo nome in realtà era Angelo. Un nome evocativo per chi era nato una manciata di mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando si stava ancora constatando quanto quella follia fosse costata in termini di vite umane. Per la famiglia, però, fu sempre “Faustino” e, ben presto, per tutti divenne Fausto. Fausto Coppi da Castellania, colline alessandrine, nemmeno cento abitanti. Quasi a confermare la regola che i grandissimi nascano nei luoghi più impensati, un po' come quando si vince alla lotteria in un semplice tabacchi lungo l'autostrada. A Castellania ci si muoveva in bicicletta, come Fausto e suo fratello Serse avrebbero imparato presto. Del resto, in un'Italia vincitrice ma dissestata dall'enorme sforzo bellico, andarsene in giro in bici era quasi la consuetudine. Solo pochissimi, però, sono stati in grado di rendere due semplici ruote alla stregua di un simbolo di rinascita per l'intero Paese. Fausto Coppi ci riuscì, offrendo all'Italia che entrava e usciva dalle guerre il campione di cui aveva bisogno per credere ancora in se stessa. Lo fece insieme all'amico-rivale Bartali, il giusto tra le nazioni, l'uomo che di Coppi era l'antitesi perfetta almeno quanto era simile a lui nella sua capacità innata di infiammare le folle.

La nascita di una leggenda

Campionissimo lo sarebbe diventato. Un formidabile atleta lo è stato fin dagli esordi. Perché se Bartali aveva dalla sua un fisico eccezionale, la sua singolare e gracile struttura fisica Coppi doveva preservarsela, e lo fece rinnovando in tutto e per tutto il prototipo degli sportivi: vita regolare, occhio attento alla dieta e al metodo di allenamento, oltre che alla struttura della sua bici. Diverso da Bartali ma con lo stesso carisma, capace di dividere un'Italia che la divisione l'aveva (provvisoriamente) sconfitta con la fine della guerra. Una scissione sana però, in seno allo sport, al diverso modo di intendere la vita, regalando alla gente una rivalità che né prima né dopo sarebbe stata eguagliata. Perché Binda e Girardengo corsero in un'epoca pionieristica e per quanto Moser e Saronni abbiano dato vita a belle sfide, con loro il ciclismo era già entrato in un'altra stagione, in cui il Paese era più pallone che bici, e iniziava più a creare idoli che eroi a cui affidarsi per dare a sé stesso un'occasione per conservare l'orgoglio di essere nazione. No, la bicicletta non godeva più della stessa aura dorata. Per Coppi e Bartali fu diverso. Per loro l'Italia era in grado di fermarsi, di dimenticare un po' delle sue sventure per correrci insieme. Un po' come avvenne per la spedizione che piantò il tricolore sul K2. Quelli sul Karakorum però erano eroi lontani, la loro impresa arrivò in differita prima di essere assaporata come un trionfo. Coppi, Bartali e le loro bici erano lì a portata di tifo, sulle piane delle crono così come sui pendii delle Alpi, dove si saliva assieme a loro, anzi prima di loro, per vedere chi dei due sarebbe arrivato in cima prima dell'altro.

Moser e i tempi cambiati

Cento anni dopo la sua nascita Coppi è un mito. E non perché a crearlo abbia contribuito la sua prematura scomparsa. Era un mito anche prima, quando andò a prendersi il Sella diventando il Re delle Dolomiti, mettendo in fila un record (condiviso ma tuttora imbattuto) di cinque Giri d'Italia, regalandosi due Tour de France e il mondiale in linea del '53 a Lugano. Un mito perché quelle vittorie, alternate a quelle del più anziano Gino, pur nella divisione propria del tifo in una corsa a due, contribuirono a scaldare l'anima di un popolo messo in ginocchio da un rovinoso inizio di secolo. Un merito non certo da poco: “Ogni epoca ha i suoi perché – ha raccontato l'ex ciclista e recordman di vittorie su strada Francesco Moser a In Terris -. Ai tempi di Coppi era il dopoguerra, c'era la rinascita, è stato un momento in cui il ciclismo era molto seguito. La gente non aveva ancora le macchine, andava in bici e quindi c'era un clima diverso. Ora, col mondo della tecnologia, è cambiato tutto: le squadre, le corse, niente è più come prima. A quei tempi era così: c'erano anche Bartali e gli altri campioni che, insieme a Coppi, hanno fatto la storia del ciclismo”.

Un'epoca d'oro

Grandi sfide si sarebbero vissute anche dopo. Felice Gimondi ed Eddy Merckx, per esempio, avrebbero riavvicinato il ciclismo ai suoi anni d'oro ma quell'epoca lì non sarebbe più tornata. Troppo diverse le persone, troppo leggendaria quella rivalità, proprio per essersi calata appieno nel suo contesto storico, costruito su una passione che, di fatto, rappresentava l'unico vero antidoto popolare a uno scenario di sofferenza: “E' difficile che oggi tornino quelle situazioni – ha raccontato ancora Moser -. Il mondo è cambiato: quando correvamo noi le televisioni avevano un canale solo, tutti guardavano solo il ciclismo. Adesso invece ci sono mille canali. C'è interesse, perché le corse le fanno vedere tutto il giorno ma non è più come prima. Ci sono gli appassionati però, per quello che vedo io, mi sembra che la gente non si leghi più come prima ai campioni. Ricordo persone che diventavano tifose, ora quel sentimento non c'è più”. Ed è forse bene così, per quei campioni di ieri che continuano a raccontare se stessi attraverso le loro imprese. Ma è bene anche per noi, per contribuire a guardare ogni epoca per ciò che è stata, assieme ai suoi eroi.

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