“La pandemia dovrebbe averci almeno insegnato che siamo tutti connessi e che nessuno si salva da solo”, monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, membro del Consiglio permanente della Cei.
Famiglia e pandemia
“La famiglia è il primo luogo dove si impara a vivere in relazione, quindi rimane essenziale per la crescita personale– evidenzia il vescovo Spreafico-. Il suo valore come ‘chiesa domestica‘ si basa proprio sul fatto che la famiglia rimane il primo luogo educativo. Che cresce in relazione con le altre famiglie. Cioè scopre di essere comunità insieme ad altri che costituiscono la Chiesa, famiglia di famiglie. In questo modo si rende possibile l’inclusione anche dei ‘senza famiglia‘ o delle famiglie di coloro che sono ai margini per i motivi più disparati”. Prosegue il presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo: “È solo in questa connessione provvidenziale che la famiglia cristiana può essere arricchita da una fede che vive e cresce con gli altri. Nell’ascolto comune della Parola di Dio. Nella partecipazione alla liturgia eucaristica. Nell’amore per i poveri e gli esclusi. Le nostre comunità parrocchiali dovrebbero maturare un’attenzione particolare per la famiglia. E favorire la partecipazione come famiglia ai momenti comuni di preghiera e di festa”. La pandemia, quindi, come sfida e opportunità.
“Anzitutto occorre ripensare la nostra vita di fede. Riportando nel cuore delle nostre comunità la Parola di Dio e la Domenica. Cioè il giorno del ringraziamento e della libertà dal fare e quindi da se stessi. Inoltre, la carità deve essere riscoperta come dimensione essenziale del nostro essere cristiani. Non appaltata solo ad alcuni”.
A cosa si riferisce?
“In questo senso mi stupisco di quanto poco questa dimensione entri ad esempio nella preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, ancora poco iniziazione a una vita segnata dalla presenza del Signore e della comunità, in cui la fede vive e cresce nella storia e non solo nell’apprendimento di nozioni”.
“Non sono d’accordo sul disinteresse dei giovani ai grandi temi. Ad esempio, al tema del creato sono più interessati dei grandi. L’ho costatato di persona incontrando ragazzi e giovani nelle scuole di primo e secondo grado. Mi chiedo se il loro disinteresse sia proporzionato alla scarsa capacità che noi abbiamo di interessarli a qualcosa per cui valga la pena di vivere. E di spendere se stessi in tempo, intelligenza, energie. Nelle generazioni che crescono c’è sempre una domanda tesa a scoprire il futuro. Questa domanda va aiutata ad esprimersi. Evitando anzitutto di giudicare. E poi ad incanalarsi verso il bene e la lotta per un mondo più umano e più giusto”.
“Direi la pagina del Buon Smaritano nel Vangelo di Luca al capitolo 10. Perché in essa troviamo un uomo, che incontra un estraneo, anzi un potenziale nemico, che soffre e rischia la morte, “vede” (che cosa vediamo noi ogni giorno oltre noi stessi?). Arresta il suo fare. Passa dall’altra parte della strada. Si prende cura di lui. Non potendo fare tutto da solo, chiede aiuto e porta il ferito in un albergo”.
“Qui troviamo non solo il valore della cura verso i poveri e i bisognosi. Ma anche il senso della Chiesa come “ospedale da campo”, secondo le parole del Papa. La Chiesa che accoglie tutti e si prende cura di tutti senza esclusione. Mai come in questo tempo abbiamo bisogno di assumerci questo impegno come individui e come comunità. Il mondo ha bisogno di una Chiesa che, come ebbe a dire Paolo VI a conclusione del Concilio Vaticano II, si presenti al mondo con la spiritualità del Buon Smaritano. E cioè con quel ‘nuovo umanesimo’ segnato dalla trascendenza, perché ‘noi più di tutti siamo i cultori dell’uomo’”.