In questi giorni di isolamento per il coronavirus abbiamo la possibilità di dedicarci di più alla preghiera e al raccoglimento come hanno fatto i padri del deserto. Una “fuga mundi” che non è sinonimo di inattività, ma di grande impegno, come testimoniato da colui che è considerato il fondatore del monachesimo cristiano, ossia Sant’Antonio Abate, chiamato anche Sant’Antonio il Grande. L’eremita, nato più di 1700 anni fa in Egitto, mostra con estrema chiarezza che il nascondimento, la solitudine e l’ascesi possono essere sinonimi non solo di fervore spirituale ma anche di dedizione nei confronti del prossimo.
Un segno inequivocabile
Il suo discepolo Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, racconta che Antonio rimane orfano in giovane età di entrambi i genitori e si ritrova con un ricco patrimonio da amministrare e una sorella minore da educare. Ispirato dal versetto evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” distribuisce tutti i suoi beni ai bisognosi e affida la sorella a una comunità di vergini. Si ritira nel deserto della Tebaide in Egitto seguendo la via della preghiera, del digiuno, della povertà e della castità come già facevano alcuni anacoreti del tempo. Chiede a Dio di essere illuminato sul suo percorso e vede un eremita come lui che, seduto, intreccia una corda, poi smette, si alza e inizia a pregare. Considera quest’incontro un segno inequivocabile per indirizzare il suo cammino verso una vita in cui si alternino ritmicamente lavoro e preghiera. Tale pratica, duecento anni più tardi, avrebbe costituito le fondamenta della regola benedettina “Ora et labora” e del monachesimo occidentale. Con la sua piccola attività Sant’Antonio Abate si procura il cibo e quanto resta lo dona ai poveri. Prega continuamente ed è così attento alla lettura delle Scritture che ricorda tutto a memoria senza il bisogno di libri.
Lotta e consolazione
Sant’Atanasio descrive anche che tipo di abiti continua a indossare fino alla morte: “Il suo vestito interno era di sacco, quello esterno di pelle”. Per venti anni abita in completo isolamento presso una vecchia fortezza romana abbandonata con una fonte di acqua, nutrendosi solo con il pane che gli viene calato due volte all’anno. Combatte strenuamente contro il demonio, che tormenta Sant’Antonio con visioni di animali terribili e si manifesta anche fisicamente attraverso colpi e percosse. Nel corso della sua vita consola tanti afflitti che si rivolgono a lui come a un faro, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo nuovi discepoli.
Le vie nel deserto
Ciò nonostante è immerso in un’aspra lotta spirituale che non gli dà tregua, assalito da dubbi e oscurità, e pure dalla tentazione di cedere alla nostalgia e ai rimpianti. Il santo eremita, trovata consolazione nel Signore dopo tanta sofferenza, chiede a Dio: “Dov’eri? Perché non sei apparso prima per liberarmi dalle sofferenze? Dove eri?”. Gesù gli risponde: “Io ero qui, Antonio!”. Papa Francesco, durante una celebrazione negli Emirati Arabi, ricorda proprio questo episodio per evidenziare che il Padre Celeste è sempre vicino a chi lo cerca: “Può succedere, di fronte a una prova o ad un periodo difficile, di pensare di essere soli, anche dopo tanto tempo passato col Signore. Ma in quei momenti Egli, anche se non interviene subito, ci cammina a fianco e, se continuiamo ad andare avanti, aprirà una via nuova. Perché il Signore è specialista nel fare cose nuove, sa aprire vie anche nel deserto”.
Il lascito
L’agiografia di Sant’Antonio è ricca di spunti e curiosità. Nell’iconografia a lui è associato il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau”, ultima lettera dell’alfabeto ebraico. In genere è raffigurato vicino a un maiale che ha una campanella al collo. Tale rappresentazione è legata al fatto che l’antico Ordine ospedaliero degli “Antoniani” allevava maiali all’interno dei centri abitati poiché il grasso di questi animali veniva usato per ungere gli ammalati colpiti dall’ergotismo, il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio” o “herpes zoster”. Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e gli animali domestici. È enorme l’eredità di fede che Sant’Antonio lascia al Cristianesimo come innumerevoli sono i riferimenti a lui nella cultura, nel culto e nella tradizione popolare. Ma più di tutto è giusto sottolineare che, pur conducendo per larghi tratti della sua esistenza una vita ritirata, ha contribuito a rendere il mondo un posto migliore, così come espresso da Benedetto XVI nell’enciclica “Deus Caritas Est”: “Nel confronto ‘faccia a faccia’ con quel Dio che è Amore, il monaco avverte l’esigenza impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio, tutta la propria vita. Si spiegano così le grandi strutture di accoglienza, di ricovero e di cura sorte accanto ai monasteri. Si spiegano pure le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima gli Ordini monastici e mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili e femminili, lungo tutta la storia della Chiesa”.