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San Nunzio Sulprizio, il sofferente tra i sofferenti

Un ambasciatore della gioia che nasce nel cuore di chi incontra Gesù. Un giovane operaio, morto ad appena 19 anni, modello di santità per le nuove generazioni. È questo e molto più Nunzio Sulprizio, nato a Pescosansonesco (Pescara) nel 1817 da un’umile famiglia. Resta orfano in tenera età di entrambi i genitori: a tre anni perde il padre, che lavora come calzolaio, a sei la madre, che fa la filatrice. Viene affidato alla nonna materna che lo educa umanamente e cristianamente. Grazie a lei impara a frequentare la Messa e a conoscere Gesù maturando dentro un desiderio forte di somigliargli sempre di più. Ma la vita gli riserva altro dolore perché a nove anni perde anche la nonna. Accolto in casa da uno zio materno, burbero e violento, non riceve le attenzioni che merita per la giovane età e per le condizioni di salute già precarie. Il fratello della madre, infatti, lo obbliga a lavorare come operaio nella sua bottega di fabbro-ferraio.

Per Nunzio iniziano così le sofferenze fisiche: carichi pesanti da trasportare, lunghe distanze da coprire a piedi con sole, pioggia, vento o neve. Tutto ciò è aggravato da una patologia cronica che lo colpisce: una grave forma di tumore osseo. Il giovane, costretto a indossare gli stessi vestiti in ogni stagione, non si lamenta: pensa a Gesù e inizia a offrire la sua fatica per redimere i peccati del mondo e per “guadagnarsi il paradiso”. In un crescendo di fede, partecipa al mistero della croce di Cristo. Un giorno, dinanzi a una ferita al piede che si incancrenisce, lo zio non ha pietà e neppure i paesani che gli proibiscono di usare la fonte del paese per medicarsi, nel timore che possa infettarla. Nunzio, allora, trova un rivolo d’acqua a Riparossa – oggi considerata una fonte miracolosa – dove trascorre molto tempo nella recita del Rosario. La vita di questo santo sarà tutta dedicata a Dio e segnata da due grandi amori: la Madonna e l’Eucaristia.

Nel 1831, per le sue precarie condizioni di salute, affronta un primo ricovero all’Aquila e qui si fa conoscere da tutti i degenti per la sua fede, per le opere di carità verso gli altri ammalati e per le nozioni di catechismo impartite ai bambini. “È molto poco che io soffra – dice – purché riesca a salvare la mia anima, amando Dio”. Un altro zio, venendo a conoscenza della sua situazione, lo raccomanda al colonnello Felice Wochinger, un alto militare di Napoli che lo prende con sé come un vero padre e lo fa sottoporre a tutte le cure possibili per l’epoca per la sua malattia alle ossa, fino alle cure termali a Ischia. Rimane per quasi due anni nell’Ospedale degli Incurabili a Napoli. Sofferente tra i sofferenti, durante la degenza porta sollievo e aiuto a chiunque incontri: “Siate sempre con il Signore, perché da Lui viene ogni bene. Soffrite per amore di Dio e con allegrezza”. In quel periodo, inoltre, prepara i suoi “compagni di strada” a ricevere i sacramenti, pregando con loro ed esortandoli sempre a non disperarsi, perché, come spesso ripete, “Tutto il bene viene da Dio”. Riceve molta forza attraverso la preghiera rivolgendosi con fervore alla Vergine Maria: “Mamma Maria, fammi fare la volontà di Dio”.

Finalmente riesce a coronare il sogno di ricevere la prima comunione. Da quel giorno, il più bello della sua vita, “la Grazia di Dio incominciò a operare in lui fuori dell’ordinario, da vederlo correre di virtù in virtù. Tutta la sua persona spirava amore di Dio e di Gesù Cristo”, come riferisce il suo confessore. Uscito dall’ospedale si trasferisce dal colonnello, che vive nel Maschio Angioino di Napoli adibito a caserma. Tra i due s’instaura un bellissimo rapporto padre-figlio che consente a Nunzio di approfondire la propria fede. Nunzio vorrebbe consacrarsi a Dio in qualche famiglia religiosa. Per questa ragione riprende a studiare, apprendendo anche un po’ di latino. Don Gaetano Errico – che da poco ha fondato i Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria a Secondigliano – intuisce che la sua vocazione è genuina: “Questo è un giovane santo e a me interessa che il primo a entrare nella mia Congregazione sia un santo, non importa se infermo”. Nunzio non farà in tempo a entrare nell’ordine, ma riesce a farsi approvare dal suo confessore una regola di vita che segue scrupolosamente e che prevede lunghe ore di preghiera, meditazione e studio, oltre alla Messa al mattino e al rosario alla sera.

Questo periodo di serenità, però, è interrotto dal riacutizzarsi della malattia con febbri altissime che affronta rivolgendosi al Signore e offrendo la propria sofferenza per la conversione dei peccatori, i sacerdoti e tutta la Chiesa. “Gesù – professa con fede – ha patito tanto per noi e per i suoi meriti ci aspetta la vita eterna. Se soffriamo per poco, godremo in Paradiso… Gesù ha sofferto molto per me. Perché io non posso soffrire per Lui?”. Il suo cammino di dolore ed espiazione su questa terra si interrompe nel 1836 quando ha appena compiuto 19 anni. Sale al Cielo dopo aver ricevuto i sacramenti; tra le sue ultime parole: “Vedete come è bella la Madonna!”. Intorno al suo corpo, provato dalle piaghe, si diffonde nell’aria un incredibile profumo di rose. Papa Francesco, nella Messa di canonizzazione del 2018, lo definisce come il “giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell’offerta di sé stesso”, uno di quei santi che, “in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare”.

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