San Crispino è il primo beato canonizzato da Giovanni Paolo II che così ne tratteggia la santità: “Seppe aprire il suo cuore alla forza vittoriosa della grazia, lasciandosene permeare in ogni manifestazione della propria esistenza, fino a diventare incarnazione vivente del Vangelo”. Nato a Viterbo nel 1668 col nome di Pietro Fioretti, San Crispino già in tenera età resta orfano di padre. La madre, vedova per la seconda volta, si sposa col fratello del marito defunto che si occuperà del bambino permettendogli di frequentare le scuole elementari presso i gesuiti, per poi accoglierlo come apprendista nella sua bottega di calzolaio. La devozione verso la Vergine Maria lo accompagnerà per tutta la vita grazie all’educazione trasmessagli dalla madre. Le cronache riportano che Pietro prende la decisione di diventare frate cappuccino in occasione di una processione penitenziale che si svolge a Viterbo per supplicare la pioggia in tempo di grave siccità allorché vede sfilare alcuni novizi del convento della Palanzana. Proprio in tale monastero, a 25 anni, inizia il noviziato per poi essere destinato a diversi conventi nel Lazio e infine ad Orvieto dove rimarrà per 40 anni.
Quello a cavallo tra XVII e XVIII secolo è un periodo complesso, tra assolutismo di Stato e lotte politiche, nuove ideologie filosofiche e inquietudini religiose come il Giansenismo. Fra Crispino è interamente consacrato al servizio di Dio e dei fratelli impegnandosi in numerose attività come quelle di infermiere, cuciniere, ortolano e questuante. Operativo su tanti fronti, rivolge il suo apostolato alle persone più disparate: artisti, commercianti, agenti di polizia, carcerati, orfani, infermi, contadini, ragazze madri, consacrati. Ma anche illustri prelati, nobili, sapienti e lo stesso Clemente XI amano conversare con lui sollecitando il suo consiglio. Una delle caratteristiche che contraddistinguono costantemente la sua esistenza è quella di svolgere una catechesi itinerante, semplice e interessante, fatta di massime ed aforismi. Così San Crispino descrive in sintesi la vita cristiana: “La potenza di Dio ci crea, la sapienza ci governa, la misericordia ci salva”.
Con tutti è gioviale e gioioso mostrando abili capacità comunicative accompagnate da argute frasi ed edificanti poesie. Uno degli aspetti della sua santità è proprio quello della letizia. “Chi ama Dio con purità di cuore – è solito ripetere – vive felice e poi contento muore”. Gli si attribuiscono anche battute simpatiche e spensierate. A chi lo commisera vedendolo camminare sotto la pioggia senza copricapo dice: “Amico, io cammino tra una goccia e l’altra” oppure “non sai che l’asino non porta il cappello? E che io sono l’asino dei cappuccini?”. Non di rado accorre a confortare nei luoghi più disparati i confratelli malati, con grave rischio per la propria salute. Non solo: è sempre disponibile ad aiutare materialmente e spiritualmente chiunque si presenti a lui, soprattutto poveri e bisognosi. All’intercessione della Madre di Dio affida suppliche e affanni umani, tanto che quando viene sollecitato a pregare per gravi casi è solito dire: “Lasciami parlare un poco con la mia Signora Madre e poi ritorna”.
Nonostante tutte le testimonianze di stima e affetto, a Fra Crispino non mancheranno insidie, umiliazioni, incomprensioni e croci. Infatti, il suo coerente impegno nella realizzazione dell’ideale evangelico lo pone non solo al centro dell’attenzione, ma anche in conflitto permanente con la realtà che lo circonda. Attento nell’allontanare tutto ciò che è superfluo, vive la povertà cercando la radicalità evangelica nella relazione con Dio e nelle opere buone verso il prossimo. Richiede tale disposizione d’animo a sé stesso e agli altri, compresi i suoi confratelli ai quali consiglia: “Se vuoi salvarti l’anima, hai da servare le seguenti cose: amar tutti, dir bene di tutti e far bene a tutti”. Per la salvaguardia di queste virtù si avvale dei mezzi della preghiera e della penitenza. Diviene un autentico modello di obbedienza, intesa come fonte viva di gioia per conservare la pace personale e l’armonia fraterna. Pietro Fioretti, pertanto, può essere considerato il santo della gioia, che è frutto dell’ascolto e della interiorizzazione della parola di Dio. I suoi contemporanei lo descrivono anche rapito in estasi contemplative, come quando viene trovato nella sua cella “alienato dai sensi con gli occhi fissi e immobili nella immagine della Beatissima Vergine”.
In una lettera a un parroco tormentato da ansie spirituali scrive: “Si faccia animo grande e virile… vada allegramente (a compiere doveri spesso tanto delicati), non facendo caso del turbamento… Procuri… stare allegro nel Signore e divertirsi in cose geniali, ma buone e sante, quando però è assalito dalla malinconia… Se la nostra vita è una continua guerra, è segno che siamo destinati per misericordia di Dio ad essere dei principi grandi in paradiso”. È ancora in vita che già la gente gli attribuisce le qualità dei santi, compresa la capacità di compiere prodigi da taumaturgo o di addomesticare le forze della natura e del mondo animale. Si ammala nell’inverno del 1747 e lascia il convento di Orvieto per Roma. Due anni dopo, quando l’infermiere lo avvisa che la sua dipartita è ormai vicina, risponde affermando che non sarebbe avvenuta il 18 maggio per “non turbare la festa di san Felice”. Infatti muore il giorno seguente, il 19 maggio 1750.