Mentre la Germania, durante lo svolgersi degli anni ’20, viveva il prepotente emergere dei moti nazionalisti che ponevano sempre più l’accento sul valore dell’identità tedesca, la filosofa e successivamente monaca Edith Stein, ripercorrendo per certi versi il pensiero di Arthur Schopenhauer, parlava nei suoi scritti della necessità di un’apertura nei confronti dell’Altro non da considerarsi come un altro-Io (come invece aveva affermato Husserl nelle sue Meditazioni cartesiane), bensì in quanto Altro nella propria alterità, in quanto Altro indipendente da sé. Tale riconoscimento, secondo la Stein, avviene attraverso la capacità umana di provare empatia nei confronti di uno stato d’animo presente nell’Altro. Senza, ovvero senza la capacità di sentire l’Altro, non sarebbe infatti possibile concepirlo come diverso da sé e come portatore di sentimenti, visioni, significati autonomi; senza l’empatia, si sarebbe portati a vedere l’Altro come una parte di sé, come un altro-Io, giungendo infine a considerarlo come un elemento da far rientrare all’interno della propria visione del mondo e come mezzo utile al raggiungimento dei propri fini.
Il pensatore Martin Buber, contemporaneo di Edith Stein, confermerà tale visione, approfondendola e sviluppandola verso originali strade, attraverso la filosofia della relazione Io-Tu ed Io-Esso. L’empatia permette allora, dopo aver riconosciuto l’Altro in quanto Altro, quel sottile salto che esiste tra il capire ed il comprendere l’Altro e, conseguentemente, il passaggio dal considerare l’Io come centro all’Altro come fine, alla luce del quale leggere se stessi e al quale tendere.
L’autore Guido Mazzoni, ne I destini generali, denuncia la progressiva perdita empatica necessaria al sentire, in maniera solidale, l’Altro e ciò che ci circonda: l’autore riporta alcuni esempi tratti dalla letteratura per mostrare come, nel corso del tempo, il cittadino appartenente ad un contesto di stampo capitalistico risulti sempre più incapace di provare quel sentimento che si trova alla base di ogni solidarietà, quel sentimento che gli antichi romani chiamavano pietas. Infatti, proprio la mancanza di una risposta emotiva solidale impedisce la solidarietà e la pietà.
A questo proposito, due episodi, raccontati da persone a me vicine, mi hanno particolarmente colpito. Il primo: in un ristorante, una ragazza stava per soffocare a causa di un boccone mal deglutito. Nessuno è intervenuto, tutti i presenti si sono improvvisamente bloccati senza reagire. Alla fine, una donna è uscita dal ristorante, ha chiamato urlando un medico, una persona è intervenuta e ha salvato la ragazza grazie ad una specifica azione di pronto soccorso. Il secondo: una ragazza sul pullman, temendo di svenire dopo aver percepito in sé alcuni sintomi, ne ha avvicinata un’altra chiedendole aiuto. Lei, un po’ infastidita, ha risposto: “E che facciamo?”. Ovvero: e cosa vogliamo fare? Fortunatamente, la situazione poi si è risolta da sé.
In entrambi gli episodi, da ciò che posso aver capito, le persone coinvolte hanno avuto una minima reazione alla situazione creatasi. Infatti, nel primo caso i presenti si sono bloccati: se non avessero capito, avrebbero continuato a parlare come se nulla stesse succedendo; nel secondo caso, la ragazza ha risposto. Ma nessuno ha reagito in maniera empatica, emotiva, solidale, secondo pietas umana, alle situazioni, le quali richiedevano appunto proprio una risposta emotiva orientata sensatamente, richiedevano quel salto che, a sua volta, permette il legame solidale tra umano e umano in quanto umani. E nessuno, se non una persona, è riuscita a compierlo. Non dico che fosse umano che tutti quanti si precipitassero sulla ragazza per cercare di salvarla – tra l’altro, non essendo tutti medici, magari causando più male che bene -, ma mi sento di affermare che una reazione umana avrebbe potuto essere anche solo chiamare aiuto al di là dello sbigottimento generale.
È, di fatto, sbagliato generalizzare: l’esempio, allo stesso modo delle parabole presenti nel Vangelo, spiega una tesi, di certo non la dimostra. Ma è contemporaneamente vero che, nella cecità causata dall’ormai abituale ripiegarci sempre e solo su di sé, l’individuo contemporaneo sta perdendo la capacità di relazionarsi profondamente con l’Altro in primo luogo e, in secondo luogo, con il Creato, ignorando inoltre che sono proprio Loro a donare significato a lui: il senso non viene da se stessi. Non può venire da se stessi: se il significato provenisse da se stessi, basteremmo completamente a noi stessi. Ma ciò non avviene: chiunque abbia sperimentato cosa significhi e cosa implichi la solitudine può affermarlo. Solo dopo aver posto in primo piano l’Altro e il Creato, i empaticamente sentendoli in quanto datori dsenso, è possibile parlare di una vera solidarietà umana. L’umano che si auto-fonda, si auto-orienta, si auto-realizza e si auto-definisce non può approdare ad altro se non al riconoscimento dell’assenza di significato, se non al nulla e al vuoto. L’esperienza di Friedrich Nietzsche o dell’esistenzialismo ateo ne è una dimostrazione piuttosto emblematica.
In quanto parte del Creato, in quanto noi per primi creature, il significato non è nostro. Ci viene piuttosto donato dall’esterno: la scelta nell’accettarlo oppure no spetta a noi. Se io sono un mondo, fuori di me esiste un intero Universo che altro non domanda se non di essere sentito, riconosciuto e accolto. E non percepito come un problema, come un fastidio dal quale liberarsi il prima possibile.