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Il peccato in tre parole

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Benché la IV domenica di Quaresima sia definita “domenica laetare (ovvero della letizia), il Vangelo di oggi (la pagina del “figliol prodigo“) ruota attorno al tema del peccato, presentato in termini di allontanamento. Un allontanamento che spesso viene scambiato per libertà. Un allontanamento verso una terra promessa che non c'è, o che è popolata di gozzoviglie e dissolutezze (finché va bene) ma poi si rivela un recinto abitato da porci e carrube (stando alla parabola!). Un allontanamento che, nel caso del figlio minore, sa di ribellione e, nel caso di quello maggiore (che pure vive vicino al padre) sa di distorsione del rapporto. A tal proposito, la lingua ebraica – a differenza di quella italiana – esprime la realtà del peccato con tre curiose parole.

Il primo termine è hattà. Ricorre 595 volte nella Bibbia e si traduce: mancare il bersaglio. In tal senso, ambedue i figli sono “fuori bersaglio”. Hanno un Padre coi fiocchi e si rapportano a Lui come due ingrati, incapaci persino di accorgersi della propria nefandezza: “Era il peccato più difficile da sanare – scrive S. Agostinoil fatto che non mi ritenessi peccatore“. Quando l'uomo è “fuori bersaglio”, la sua distanza da Dio diventa siderale. Vi è poi un secondo termine che indica il peccato: awòn, ovvero, torcere. Ricorre 227 volte nella Bibbia e denota l'atteggiamento di chi distorce la conoscenza di Dio, come un ubriaco deforma (calpestandola coi piedi) la lattina di birra che si è appena scolata. É la falsificazione dell'insegnamento di Gesù e del volto di Dio. Basta vedere in che modo è stato demonizzato – quasi fosse un raduno di hooligans – il Congresso mondiale delle famiglie in svolgimento a Verona, per rendersene conto. In questo caso, dietro il peccato si nasconde un inganno satanico. Perché Satana è il fallito principe della distorsione. Vi è infine un 3° termine ebraico. É il più esplicito. É il termine pesā: ribellione. Ricorre nella Bibbia 132 volte. É l'atteggiamento di ambedue i figli della parabola, che si traduce nella sfrontatezza di voler essere come Dio e – talvolta – nasconde la pretesa di dare lezioni a Dio. Non un singolo atto dunque – per quanto malvagio – ci allontana da Dio, quanto il nostro modo di ragionare e di agire ci qualifica come peccatori, ovvero come lontani da Lui, quand'anche vicini alle sue chiese, moschee o pagode. Si può essere prostrati nella più totale sottomissione a Dio ed essere lontani anni luce da Lui. In conclusione: il figlio minore, anche se spinto da motivazioni non nobili, si riavvicina al Padre che lo riveste di abiti nuovi. D'altro canto San Paolo nella seconda Lettura odierna afferma: “Se uno è in Cristo è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove“. Il peccato sa di vecchio, di ammuffito e di putredine. Per guarire da tale “vecchiume” è necessario lasciarsi cingere dalle braccia del Padre di Gesù Cristo e sperimentare la forza rigenerante del suo perdono. Ed è esattamente ciò di cui parlerà il Santo Vangelo di oggi.

don Carlo Giuseppe Adesso: