Carissimi sorelle e fratelli,
ci ritroviamo, all’inizio di questo insolito Triduo Pasquale, per celebrare in questo sacro luogo, gli eventi della nostra salvezza. Le circostanze sono tristi, non vi è nulla di esternamente festoso oggi. Ce lo siamo detti già diverse volte in questo anno che è strano celebrare in questo modo. Ma forse, in queste nostre ristrette celebrazioni, proprio perché prive di ingressi trionfali e senza cerimonie solenni e affollate, c’è qualcosa di nuovo che possiamo imparare. Uscendo dalle tradizioni abituali, forse potremo più facilmente cogliere una parola, una riflessione, un insegnamento, un gesto che in momenti normali non avrebbero probabilmente attirato la nostra attenzione.
Ed è proprio su un gesto proposto dalla liturgia della Parola che vorrei si rivolgesse la nostra attenzione: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto” (Gv 13,4-5).
Il gesto compiuto quella sera non fu il gesto di chi voleva impressionare o stupire. Era il gesto che più di ogni altro racchiudeva ed esprimeva il senso di un’intera esistenza. Il Signore e Maestro che non aveva considerato “un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, che non aveva imboccato nessuna corsia preferenziale nella sua avventura umana, che non aveva vantato privilegi né rivendicato interessi personali, con il suo stare in ginocchio davanti ad ogni apostolo, sigilla e anticipa quanto di lì a poco accadrà: prendere su di sé tutto ciò che ostacola i passi dell’uomo verso la pienezza della vita.
Questo inatteso quanto evocativo gesto mette in imbarazzo e diffonde perplessità in mezzo ai Suoi: “Ma cosa sta facendo? È impazzito? Lui fa questo a noi? Perché? Cosa significa?”. All’imbarazzo e alla perplessità fa seguito il rifiuto esplicito di Pietro che non tarda a manifestare la sua ribellione e a far presente la sua riluttanza: «Non mi laverai mai i piedi».
La riluttanza di Pietro è per noi molto comprensibile: non è sempre facile amare, ma forse è ancor più difficile lasciarsi amare! Di fronte all’eccesso di amore non poche volte la risposta è quella di limitare gli spazi e di circoscrivere i confini.
Alla nostra ritrosia Gesù risponde con le stesse parole rivolte a Pietro: ci invita, cioè, ad abbandonarci, a lasciarci accogliere da lui così come siamo. Proprio quelle parole ci rivelano ciò che il Maestro desidera: non cerca un discepolo perfetto, ma solo uno che si lasci amare da lui, si lasci purificare dalla sua bontà, guarire dalla sua misericordia.
Il suo chinarsi per lavare i piedi manifesta che la qualità più profonda dell’amore concreto e quotidiano è l’umiltà di porsi al servizio dell’altro. La vita cristiana nasce là dove c’è la coscienza viva e la memoria grata di un Dio che «mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gal 2,20).
Quindi, se all’origine della vita cristiana c’è un amore che mi ha preceduto, qual è il modo in cui essa si esprime? È il Signore stesso a rivelarcelo: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri». L’amore, per Gesù, si manifesta nella capacità di mettersi a servizio e, solo guardando a Gesù Servo, arriveremo a scoprire che il servizio ha alcune caratteristiche:
- esso è soprannaturale: nasce, cioè, dall’azione dello Spirito Santo in noi. Quando si ama per davvero, non si può non servire;
- è disinteressato, perché è proprio dell’amore non cercare il proprio interesse ma quello dell’altro;
- è sincero, cioè compie gesti di prossimità ed attenzione senza rischiare di compiere le opere di carità senza la carità delle opere;
- è effettivo, infatti l’amore è questione di gesti non di buone ragioni; non basta esprimere a parole i reali sentimenti del cuore;
- è universale, cioè non ammette eccezioni ed esclusioni;
- infine, è gioioso: quando manca la gioia, i gesti rischiano di essere compiuti senza umanità.
Ma, se da un lato queste sono le caratteristiche del servizio e dell’amore, esso conosce alcune tentazioni da cui siamo messi in guardia:
- l’attivismo, cioè il pericolo di quando il darsi da fare per l’altro prende il sopravvento sull’avere tempo per l’altro. in queste circostanze può accadere di essere talmente indaffarati a parlare di Dio, da non avere più tempo per Dio.
- Il vittimismo è la tentazione in cui cadiamo quando ci impegniamo e, sotto sotto, attendiamo considerazione, approvazione e ricompensa. È la sindrome della “carità matematica”: il cuore diventa un calcolatore infallibile con un’attenzione particolare alla “partita doppia” del dare e dell’avere!
- Il narcisismo è il rischio di assecondare il bisogno di rispecchiarci compiaciuti in quello che facciamo.
Potremmo dunque concludere che il servo secondo il Vangelo è colui che scrive sulla sabbia ciò che dona e incide sulla pietra quello che riceve; è colui che appartiene a quanti, dopo avere fatto ciò che gli era stato chiesto, dicono: «Siamo soltanto dei poveri servi; abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). È colui che, seppur istruito dalla logica del mondo a restare sempre in piedi, si è lasciato educare dal Vangelo a sapersi chinare per lavare i piedi del prossimo, spesso feriti e doloranti per il duro viaggio di questa vita.
In definitiva, il Giovedì Santo ci insegna come vivere la sostanza del Vangelo: la vita vera non è stare in piedi, dritti e fermi nel proprio orgoglio, ma imparare a piegarsi verso i fratelli e le sorelle, soprattutto verso i più deboli, e mettersi a loro servizio con amore.
Preghiamo quindi, in questa santa sera, perché il gesto della lavanda dei piedi, che nel quarto Vangelo sostituisce il racconto dell’istituzione eucaristica presente nei sinottici, non si riduca a mero ritualismo ma generi in noi un vero capovolgimento della vita. Sia lodato Gesù Cristo!