Il personaggio Kirillov, all’interno de I demoni di Dostoevskij, ad un certo punto della propria riflessione, afferma: “O esiste Dio, dunque ciò che conta è la Sua Volontà; oppure Egli non esiste, dunque conta la mia Volontà”. Aggiungo: la Volontà umana, in quanto effettivamente voluta dall’essere umano, diviene di conseguenza il criterio morale delle azioni umane. Ma poiché l’umano sempre vuole e sempre desidera, qualora il criterio morale diventi la sua volontà, ne consegue che qualsiasi voglia o qualsiasi desiderio è legittimo (proprio tale pensiero causerà un suicidio nel già citato romanzo dostoevskijano e un patricidio ne I fratelli Karamazov del medesimo autore). L’essere umano che si fa Dio, ovvero che ritiene d’essere la Volontà dalla quale tutto dipende, ontologicamente e moralmente, è un individuo che tende a voler dominare ciò che lo circonda. Egli ritiene infatti che il Circostante possa in effetti rientrare all’interno del proprio controllo: intende dunque possederlo e piegarlo alla sua volontà facendo proprio qualcosa che, in realtà, non può essere posseduto, né controllato. Almeno: non completamente. Sono necessarie infatti alcune precisazioni: l’umano, attraverso l’abilità tecnica e la conoscenza, può in effetti porsi in una condizione di controllo della Natura, ma sempre fino ad un certo limite oltre al quale non può andare. Inoltre, una maggiore capacità di controllo e una maggiore conoscenza del Circostante implicano necessariamente una maggiore responsabilità, dunque una maggiore eventuale colpa; una maggiormente elaborata riflessione morale. Appare invece diversa la situazione di colui che invece, umilmente, pur conoscendo la vita, la accetta riconoscendone la spontaneità ed indipendenza, senza considerarla come qualcosa da possedere o di posseduto e non come qualcosa di dato; bensì di donato e di indipendente da sé (questa è la medesima distinzione che l’autore Francesco Lorenzi compie nel libro I segreti della luce). Egli allora risulta anche capace di scorgerne da una parte la spaventosa e indomabile grandezza – il Creato funziona benissimo anche da solo senza l’intervento dell’essere umano: pensare che sia l’umano a farlo funzionare è semplicemente presunzione, dal momento che egli piuttosto scopre un funzionamento che giù sussiste; dall’altra la minuscola fragilità che necessita invece d’essere preservata e custodita. Riuscendo a vederla, egli diviene capace di dedicarsi a ciò che è piccolo e fragile in previsione di una sua successiva crescita: ecco il Coltivare, ovvero l’operare in previsione di un risultato futuro; ecco il Custodire, ovvero il preservare ciò che si è coltivato affinché diventi ciò che è destinato a diventare. Mi pare che il Coltivare ed il Custodire, nati dall’umiltà di colui che è capace di accettare con gratitudine un dono, siano tra le più alte e belle manifestazioni dell’Amore. Non compiono le medesime azioni una madre e un padre nei confronti dei figli e delle figlie? Essi sono chiamati a riconoscerli non come propri possedimenti, bensì in quanto diversi da loro, con fragilità, difetti e talenti; sono chiamati a coltivarne le potenzialità, a custodirli nella crescita senza il tentativo di dominarli. Fin troppo facilmente tendiamo a considerare gli altri e il circostante e, di conseguenza, a volerli possedere, in funzione di noi stessi a causa della nostra volontà di dominio, a causa del voler far rientrare ciò che è diverso all’interno dei nostri sistemi perfettamente razionali, a causa di ciò che papa Francesco chiama “ferita del peccato”; San Paolo “spina che punge la carne”; Dostoevskij “sottosuolo”; Fromm “residuo della propria animalità”; per quel fango che ogni individuo porta dentro di sé e contro il quale, ogni giorno, deve lottare, sforzandosi di superarlo. La grande tentazione contemporanea è proprio il pensare di poter far rientrare tutto sotto il proprio possesso. Controllo e Dominio non possono incontrarsi con il Coltivare ed il Custodire: sono due binomi concettuali esistenzialmente contraddittori. La vita, da sé, si svicola dalle pretese umane e domanda non un possesso, bensì un’appartenenza. Tra possesso e appartenenza esiste una reale distinzione, la quale si concentra intorno al dove decidiamo di porre la nostra attenzione: se Noi, dal quale far dipendere il Creato; o il Creato, in quanto diverso da noi e alla luce del quale poterci leggere. Colui che vuole infatti possedere afferma: «Guarda: io ti amo. Amami, perché io ti amo!»; colui che sente di appartenere ad un Creato che esula da lui afferma: “Guarda: io ti amo. Tu mi ami?”; il primo pretende sulla base di ciò che dà, il secondo semplicemente domanda, lasciando aperta la dimensione della libertà altrui. E, riconoscendo tale libertà, Coltiva e Custodisce
Le brevi riflessioni sono state elaborate su iniziativa della Pastorale Giovanile della Diocesi di Grosseto e, in particolare, su invito di don Stefano Papini, che ha suggerito i passi della Laudato Si’ ai quali le riflessioni si riferiscono.
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