Alessandro Manzoni descrive Rosmini come “una delle sei o sette grandi intelligenze dell’umanità”. In effetti, il Beato Antonio, nato nel 1797 a Rovereto (Trento) – a quel tempo appartenente all’Impero austro-ungarico – da una famiglia di alta posizione sociale, è una mente brillante che si dedica fin da giovane a filosofia, politica, ascetica, pedagogia, nonché legge e teologia. Diviene sacerdote nel 1821 e approfondisce gli studi filosofici, incoraggiato da Pio VIII, che gli chiede di scrivere “per prendere gli uomini con la ragione e per mezzo di questa condurli alla religione”. In quel periodo, infatti, a seguito delle teorie scaturite dalla Rivoluzione francese, si respira un forte anticlericalismo. In più di un’occasione Rosmini si schiera contro alcuni movimenti di pensiero quali il sensismo e l’illuminismo. Giovanni Paolo II lo citerà nell’enciclica “Fides et Ratio”: “Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein…”.
Nel 1828 don Rosmini fonda la congregazione Istituto della Carità, approvata da Gregorio XVI nel 1839. Formata da sacerdoti e laici con voti semplici e perpetui ma anche da religiosi e vescovi l’organismo nasce con finalità ben precise: l’esercizio della carità universale, unione di quelle forme che Rosmini cataloga in “carità spirituale”, “carità intellettuale” e carità temporale. Un ordine, tuttavia, suscettibile di cambiamenti a seconda delle esigenze espresse dal prossimo e delle contingenze storiche, civili e culturali del tempo. “Non pensiamo a questo Istituto, ma sempre alla Chiesa di Cristo – spiega Antonio Rosmini – richiamando nel gaudio del nostro cuore le promesse che ci furono tramandate in eredità riguardo al regno di Cristo e all’immobilità del divino consiglio… finché [la nostra famiglia religiosa] sarà utile alla Chiesa, [Dio] la conserverà e la proteggerà; quando invece comincerà ad essere inutile e dannosa, con giusto giudizio troncherà l’albero dannoso e lo darà alle fiamme”.
Successivamente, nel 1832, viene istituito il ramo femminile dell’Istituto della Carità: le Suore della Provvidenza. Il Beato è un precursore dei temi che saranno trattati nel Concilio Vaticano II, come ricordato nel 1972 da Paolo VI che lo definisce “profeta”. A tal proposito, nella sua opera più nota, “Le cinque piaghe della santa Chiesa” – una disamina dei mali che affliggono la comunità ecclesiale – affronta un argomento che lo fa molto soffrire: la separazione tra fedeli e clero durante le funzioni liturgiche, per l’impossibilità dei primi di seguire le preghiere formulate in latino. Per la novità di alcune sue idee sulla riforma della Chiesa, questo testo viene messo all’indice nel 1849. Solamente con Giovanni Paolo II – precedentemente menzionato – avviene la completa riabilitazione della sua figura.
Attorno al 1854 si riacutizza in lui la malattia al fegato della quale soffre da anni. Sempre più debilitato, e ormai prossimo alla fine, riceve la visita di tante persone che gli dimostrano ammirazione e chiedono un consiglio o una preghiera. Tra di loro anche Alessandro Manzoni a cui affida una sorta di testamento spirituale: “Adorare, tacere, godere”. Passa a miglior vita il 1° luglio 1855, all’età di 58 anni. Lascia ai cristiani una grande fioritura di realtà – diffuse in ogni parte del globo – e di opere, alcune delle quali ancora tutte da scoprire e approfondire, oltre alla sua encomiabile esemplarità nell’abbandonarsi alla divina volontà, come quando afferma: “Io, meditando la Provvidenza, l’ammiro; ammirandola, l’amo; amandola, la celebro; celebrandola, la ringrazio; ringraziandola, m’empio di letizia. E come farei altrimenti se so per ragione e per fede, e lo sento coll’intimo spirito che tutto ciò che si fa, o voluto o permesso da Dio, è fatto da un eterno, da un infinito, da un essenziale Amore?”.