Le scrivo in merito alla polemica in corso sulla sepoltura dei feti abortiti. Era il 1999 quando don Oreste Benzi celebrò il primo funerale di un bimbo abortito. Era il figlio di una signora con tanti problemi, vissuta per un periodo anche con la mia numerosa famiglia. Temeva che i Servizi sociali non le permettessero di fare la mamma togliendole il figlio alla nascita. Purtroppo perse il bimbo spontaneamente, a 19 settimane di gestazione.
Fu l’ostetrica dell’ospedale pubblico, un istante prima dell’espulsione, a chiederle se avrebbe desiderato per lui il battesimo e quale nome dargli. Era consapevole infatti che sarebbe potuto nascere vivo ma troppo piccolo per poter vivere più di qualche istante una volta separato dalla madre. La signora ne fu lieta, accolse volentieri anche la possibilità di una degna sepoltura con rito cristiano. Nel tempo questo gesto si rilevò molto importante per lei ed era di grande sollievo portare un fiore sulla sua tomba.
Ricordo ancora con emozione quel bimbo in miniatura e la sua manina perfettamente formata, grande come un’unghia. Da allora la Comunità Papa Giovanni XXIII si rende disponibile a sostenere i genitori di questi piccoli nell’adempiere al loro desiderio di una degna sepoltura, troppo spesso osteggiato dal personale sanitario. Rileviamo purtroppo come sia prassi ospedaliera e talvolta anche cimiteriale utilizzare il termine “feto di…” o “prodotto abortivo di…” per identificare ciò che resta di quel piccolo essere umano. Per i genitori si tratta di una terminologia molto sgradevole e spesso è impedito loro di poter scrivere sulla lapide il nome che avrebbero voluto dare al proprio bambino.
Il lutto prenatale è ormai classificato al pari di quello perinatale o post-natale. Una sofferenza che i genitori vivono in modo molto profondo ma così spesso minimizzata e repressa. La sepoltura e i riti connessi danno la possibilità di socializzare il dolore e di avviare una più facile elaborazione del lutto. Talvolta i genitori, pur desiderando rispetto per le spoglie del loro figlio, non si sentono di procedere in prima persona e delegano noi. Questo avviene in forma anonima attraverso l’ospedale.
Essendo inequivocabile ai genitori la nostra fede di appartenenza, ci sentiamo in dovere di effettuare un rito cristiano e deporre una croce. Talvolta invece abbiamo accompagnato genitori musulmani. In questi casi abbiamo lasciato che loro stessi recitassero le loro preghiere. Noi abbiamo fatto un passo indietro e ce ne siamo astenuti. Quando siamo coinvolti dagli ospedali, ogni salma è identificata da un codice che viene poi riportato sul registro cimiteriale e associato alla tomba. Solo la madre può ottenere quel codice dall’ospedale e recarsi al cimitero per conoscere, anche a distanza di 5/10 anni, il luogo esatto in cui è stato sepolto il figlio. Le madri e i padri ci ringraziano sempre e testimoniano il valore e l’importanza di questo gesto. Dare una degna sepoltura.
Enrico Masini
(fonte Avvenire)