Esiste una sorta di abitudine, propria dell’indole umana, a osservare il mondo da un punto di vista prettamente geografico, con la tendenza a inquadrare determinate zone del pianeta con nessun’altra identificazione che non sia quelle del proprio nome. E, a questo proposito, principale conseguenza di un ragionamento simile è la predisposizione a osservare il tutto da una prospettiva “aerea”, senza scrutare sotto la superficie della semplice attribuzione convenzionale. E questo vale, in misura quasi maggioritaria, anche per regioni fondamentali per lo scorrere della vita sulla Terra. Basti pensare a un’area come quella dell’Amazzonia che, per quanto resista (fortunatamente) l’idea di fondo di considerarla “il polmone verde” del pianeta, non viene forse considerata in tutte le sue declinazioni, perché se è vero che il bioma amazzonico risulta cruciale per la sopravvivenza stessa della vita, è altrettanto vero che nel sottobosco della foresta pluviale si muove chi, ancestralmente, ha assunto su di sé il compito di vigilare affinché tutto questo proceda senza problemi. E non si tratta di multinazionali o organizzazioni predisposte ma dei cosiddetti “popoli indigeni”, coloro che lì sono nati e, più di tutti, sono consapevoli dell’importanza del loro ambiente.
L’opera dei Guajajara
Una considerazione che, a ogni modo, non ha fermato l’impulso dell’era della globalizzazione la quale, per una sorta di effetto collaterale, ha fatto sì che, progressivamente, il rischio per tali popolazioni arrivasse a toccare pericolosi livelli di guardia. La riduzione del loro spazio vitale è uno dei fattori di maggior preoccupazione ma, di sicuro, anche il non tener conto del ruolo fondamentale svolto da questi popoli per la preservazione del loro ambiente risulta un fattore determinante affinché la pressione della civiltà contemporanea influisca in modo negativo sulla sopravvivenza delle biodiversità. Nella regione amazzonica, nell’areale corrispondente alla porzione di territorio compreso nei confini Brasile, questo vale per i Guajajara, i “guardiani della foresta”, tutori dell’ambiente (e a loro volta al centro di una campagna di sostegno dell’organizzazione Survival International) ma anche di chi ci vive: in questa zona, infatti, sopravvive un gruppo di indigeni Awà, tribù di cacciatori e pescatori in buona parte incontattata. Un territorio il loro, inquadrato dai Guajajara su un piccolo e rigoglioso rilievo al centro della foresta, sul quale pesa oggi la minaccia del disboscamento, particolarmente incrementato dall’insediamento della presidenza Bolsonaro e che, assieme al danno ecologico, rischia di distruggere l’isola di sopravvivenza che questo popolo (a oggi composto da poco più di 300 individui) ha creato e anche di esporlo al concreto rischio di genocidio. Una minaccia ben più concreta di quanto si pensi poiché, se costretti a uscire dalla foresta, queste persone resterebbero vittima di un impatto inevitabile e brutale con il mondo esterno e, con esso, a malattie e virus che per loro sarebbero fatali. Il medesimo pericolo corso dai più noti Sentinelesi, tribù totalmente incontattata delle Isole Andamane, in India, che proprio in virtù di un netto rifiuto a qualsiasi contatto con il mondo esterno, rientra in un programma di preservazione sostenuto dalla stessa Survival e da altre organizzazioni.
Gli Awà e i Kawahiva
La situazione degli Awà (e anche di altre tribù incontattate sudamericane come i Kawahiva del Mato Grosso) risulta a ora più rischiosa. Recentemente, l’associazione cinematografica Midia India ha pubblicato l’estratto di un filmato in cui viene mostrato un esponente della tribù ripreso dai Guardiani Guajajara: una delle rarissime immagini degli Awà nel loro ambiente, che prova la loro sopravvivenza e si trasforma in un appello alla Comunità internazionale affinché venga istituito un programma di tutela, che vada ad arginare l’azione dei taglialegna e a promuovere il conservazionismo a opera delle popolazioni indigene. Un dato, questo, da non sottovalutare: come spiegato da Survival, l’azione delle popolazioni native costituisce l’unico vero baluardo agli effetti della deforestazione (o, in ogni caso, alla distruzione degli ecosistemi), considerando che è proprio nella foresta che la loro vita trova ragion d’essere e, in virtù di questo, la preservazione dell’ambiente costituisce una naturale conseguenza della loro azione.
Il dramma dei Baka
Non sempre, però, riconoscere l’importanza di un popolo per gli equilibri dell’ambiente a cui appartiene è un concetto che gode della giusta considerazione. Caso emblematico, in questo senso, è quello dei Baka del bacino del Congo, popolo autoctono di una porzione d’Africa che, come l’Amazzonia, risente di una deleteria distorsione del concetto di conservazionismo il quale, anziché tutelare gli abitanti indigeni di una determinata area, li identifica come un elemento di deterrenza alla sua sopravvivenza. Il popolo Baka, nativo della foresta e risorsa cruciale per la preservazione delle sue forme di vita grazie a una particolare attività di raccolta, continua a soffrire il dramma di uno “sfratto psicologico” derivato dall’impedimento sempre più sistematico a mantenere viva l’interazione uomo-foresta che li caratterizza. Il tutto in nome di una logica conservazionista, frutto di accordi fra enti internazionali per l’istituzione di aree protette, che esclude i Baka, privandoli del libero accesso a un’area non solo di sostentamento ma anche a un territorio di immenso e ancestrale valore spirituale per la loro comunità, esponendoli all’azione spesso brutale delle squadre di guardiani anti-bracconaggio.
Misure urgenti
Un quadro estremo quello riguardante i popoli indigeni e che, oltre a una riflessione approfondita, necessita di importanti prese di posizione. Perché, pur se la logica imperante del nostro secolo tende a mostrarci una società che corre ben più veloce di quanto l’uomo stesso riesca a fare, è altrettanto vero che la tutela delle radici ancestrali dei territori terrestri dovrebbe risultare una priorità, specie in un momento storico che consente conoscenze approfondite relative ai rischi legati alla distruzione o alla semplice deformazione degli ambienti e delle biodiversità. E questo, inevitabilmente, passa dalla protezione degli abitanti nativi dei territori in questione. D’altronde, come sosteneva l’antropologo Lévi-Strauss, “un umanesimo ben orientato non comincia da se stessi, ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell’uomo e il rispetto degli altri esseri prima dell’amor proprio”. Un passaggio che inquadra in modo semplice il compito della società contemporanea: tornare a far proprio il principio secondo cui è l’uomo stesso a farsi garante della sopravvivenza del territorio in cui vive. Un concetto al quale veniamo educati ma, se richiesto, raramente trova l’orecchio giusto disposto ad ascoltarlo.