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L’urgenza di mettere in sicurezza il territorio. Sos dei geologi

Il 94% dei comuni italiani è a rischio dissesto e soggetto ad erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità

Sos territorio. Quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio dissesto e soggetto ad erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità. Il presidente del Consiglio nazionale dei geologi Arcangelo Francesco Violo chiede che “nella nuova manovra venga finanziato il completamento della Carta geologica d’Italia”. Perché “è necessario avere uno strumento di base cartografico ufficiale. Attualmente copre solo il 50% del territorio nazionale“. Inoltre la Carta geologica d’Italia “può rappresentare anche uno strumento di tipo tematico per poter effettuare una programmazione contro il dissesto idrogeologico o ai fini della ricerca mineraria”. Mai come in questo momento, secondo gli esperti del territorio, “c’è la necessità di ricercare nuove risorse minerarie nel sottosuolo e materie prime critiche utili alla transizione digitale ed ecologica. Un’estrazione che va fatta con le nuove tecniche e avendo come obiettivo la sostenibilità“. Inoltre, entro il 2025, l’Italia completerà il piano di bonifica delle 81 discariche abusive consegnate al commissario di governo nel 2017 a seguito della procedura d’infrazione aperta nel 2014 dalla Commissione europea. Sette anni fa fu comminata al nostro Paese una sanzione di 42 milioni a semestre. Il generale di brigata dell’Arma dei carabinieri e commissario unico per la bonifica delle discariche abusive Giuseppe Vadalà è intervenuto a Genova al congresso nazionale dei geologi Italiani. Spiegando che 78 siti su 81 sono ormai fuori dall’infrazione. Si tratta di discariche abusive di grandi dimensioni formate prevalentemente da rifiuti urbani e non industriali.

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Foto di vianet ramos su Unsplash

Territorio da bonificare

“Il piano di rimozione delle discariche abusive in Italia è iniziato nel 2017. In sette anni abbiamo quasi completato il lavoro, – spiega Vadalà -. E’ stata un’infrazione comunitaria importante con una sanzione che è costata all’Italia 42 milioni dal 2014 ogni sei mesi. Oggi siamo scesi a una sanzione di 2,6 milioni a semestre. Quindi negli anni abbiamo disinquinato tanto e risparmiato tanto. Rimangono le ultime tre discariche in cui va completata la bonifica. Cioè Amantea, Chioggia e Miatello. Nel dicembre 2025 prevediamo di terminare il piano”. Prosegue il commissario: “Degli 81 siti affidati all’Arma dei carabinieri 33 nel 2021 sono diventati target del Pnrr. Dunque abbiamo una responsabilità in più di finire il lavoro nei tempi”. Inoltre dal 2021 le competenze della struttura dell’Arma dei carabinieri sono state ulteriormente ampliate. Non solo ai casi di infrazione europea ma ai casi importanti di ordinaria bonifica e messa in sicurezza. Quindi stiamo stiamo adeguando la chiusura dell’impianto di Malagrotta, discarica chiusa nel 2013 a Roma. E abbiamo altri cinque siti che stiamo bonificando in Calabria e Toscana“.

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Foto di Gianni Crestani da Pixabay

Riordino necessario

Serve, inoltre, un riordino della normativa sulla gestione delle risorse idriche in Italia. La crisi climatica causa sempre più spesso dei lunghi periodi di siccità. Con ricadute sull’agricoltura, sulle attività produttive e sui territori. Perciò gli acquiferi sotterranei diventano dei serbatoi naturali utilizzabili nei periodi di siccità da valorizzare. Questa è una delle priorità indicate dal Consiglio nazionale dei geologi. Sarà presentata una proposta per “riordinare le tante normative disorganiche che riguardano la gestione delle risorse idriche nel nostro Paese”. Verrà chiesta, quindi, una riforma del regio decreto del 1933 che gestisce e norma le concessioni idriche in Italia. Secondo i geologi in particolare “emerge la necessità di conoscere meglio gli acquiferi sotterranei”. Spesso, infatti, i bilanci idrogeologici non sono affidabili. C’è una mancanza di conoscenza in merito. E occorre implementare i piani di monitoraggio qualitativi delle risorse idriche. Così da poter programmare la gestione. E proporre nuove tecniche di immagazzinamento dell’acqua come la ricarica delle falde. Si tratta, secondo i geologi, di “uno strumento poco costoso e molto efficace“. Perché gli acquiferi sotterranei sono dei serbatoi naturali che rispondono in modo più lento ai periodi di siccità. E dunque possono diventare dei bacini di immagazzinamento naturali.

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Foto di Colin Lloyd su Unsplash

Valutazione-territorio

Intanto la commissione tecnica di valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente ha approvato il progetto del ponte sullo Stretto di Messina. Anche se con prescrizioni. Il consiglio nazionale dei geologi ha preso atto della volontà politica di realizzare l’opera. Evidenziando in maniera forte la necessità che alcuni questioni geologiche vengano approfondite. “Ciò è avvenuto perché nel ‘decreto ponte‘ è stato recepito l’emendamento che abbiamo sollecitato”, evidenzia il presidente del Consiglio nazionale dei geologi Arcangelo. Prosegue Francesco Violo: “Il nostro emendamento al ‘decreto ponte’ chiede un adeguamento pedissequo alle norme tecniche del 2018. Rispetto a quando era stato presentato il progetto nel 2011 aggiorna tutti gli aspetti geologici del progetto. Un aggiornamento effettuato sulla base di tutto quanto di nuovo gli istituti scientifici negli ultimi anni hanno prodotto sui modelli sismotettonici di un’area che si sa essere esposta al rischio sismico”.

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Foto di Angelo Giordano da Pixabay

Precedenti

Alla grande siccità del 2022 all’anno più piovoso degli ultimi decenni, sono sempre di più i casi, non ultimo quello drammatico di Valencia, che mettono in guardia sulla necessità di essere pronti ad affrontare eventi climatici estremi, con un sistema di pre allerta e protezione civile che funzioni, cittadini informati e pronti e una burocrazia che non freni i progetti necessari. A fare il punto sul presente, con uno sguardo al futuro e partendo dal passato, è il convegno organizzato dall’Ordine dei geologi del Piemonte. Un forum per i trenta anni dall’alluvione che colpì il Piemonte. Reso possibile dalla cooperazione con il dipartimento di Scienze della terra dell’università, il Cnr-Irpi e Sigea. Già lanciando l’evento il presidente dell’Ordine, Ugo De la Pierre, aveva espresso “preoccupazione per come continuano ad essere gestite concretamente le politiche territoriali nell’ambito dell’assetto idrogeologico”. E aveva sottolineato la necessità di “continuare a monitorare il territorio e a impegnare risorse economiche”. Ricordando, invece, quei giorni di 30 anni fa, Fabio Luino del Cnr Irpi, osserva che “ci colse impreparati e da questo punto di vista è stato fatto tantissimo, ma c’è ancora molto da fare”.

Spagna
Foto © Agensir

La lezione di Valencia

I più anziani se la ricordano ancora benissimo l’alluvione del 1957, quando il Turia sfondò gli argini provocando almeno 400 morti e danni enormi in tutta la città. All’epoca il fiume attraversava il centro di Valencia. Ora non è più così. Dopo quella tragica inondazione il suo corso venne deviato di 12 chilometri, lontano dal centro. Senza quella opera la Dana, con la sua violenza smisurata, certamente avrebbe provocato molte più vittime delle tante causate nei devastati comuni della cintura urbana. Al posto dell’antico letto del fiume oggi c’è l’ammirato Giardino del Turia, uno dei parchi naturali urbani più grandi e visitati della Spagna. Uno spazio verde di oltre nove chilometri con strutture sportive e la celebre Ciudad de las Artes y las Ciencias. Opera dell’architetto Santiago Calatrava. L’opera di ingegneria idraulica di deviazione del fiume, battezzato all’epoca Plan Sur, fu iniziata appunto subito dopo l’alluvione del 1957 e ultimata nel 1973. Alla fine si decise di portare il Turia fuori città. Dotando il nuovo letto del fiume di una capacità di oltre 5mila metri cubici di acqua, molti di più rispetto ai 3700 del precedente corso cittadino. Tuttavia il Plan Sur non venne completato in tutte le sue parti. I geologi dell’epoca, per prevenire definitivamente le alluvioni, avevano progettato la nascita di un grande bacino. Capace di contenere ben 164 milioni di metri cubici di acqua. Ma proprio quando dovevano partire i lavori, tutto si bloccò. E il bacino restò sulla carta.

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Foto di Hermann Traub da Pixabay

Cause

La ragione era molto semplice: Franco all’epoca rimase senza soldi. In quel periodo scoppiò nel Sahara la guerra di Ifni. Combattuta tra le truppe spagnole e quelle dell’esercito di liberazione marocchino. Così le risorse già assegnate alla costruzione dell’opera idraulica vennero girate ai militari. Più tardi, anche i diversi governi della giovane democrazia spagnola, tentarono di riprendere quel piano. Ma malgrado i tanti buoni propositi non se n’è fatto nulla. L’ultima a battersi per questa opera fu il sindaco di Valencia Rita Barberá. Che nel 2010 cercò di mobilitare tutti i consigli comunali della zona. Per forzare il governo centrale a mantenere la sua promessa risalente al franchismo. All’epoca disse: “Sono passati 18 anni senza una grande alluvione. Ma questo non ci assicura non si verificherà in futuro. Perciò chiedo a Madrid che porti a termine il Plan Sur”. Nessuno ha mai raccolto quell’appello che adesso con 222 morti e migliaia di sfollati ed enormi devastazioni, assume un valore ancora più inquietante.

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