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La prigione a cielo aperto dei Rohingya

Il Bangladesh e la Birmania ci riprovano. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), i due paesi stanno trattando per consentire il rimpatrio dei profughi di etnia Rohingya fuggiti dall’ex colonia britannica dal 25 agosto del 2017, in seguito a una violentissima repressione da parte dell’esercito birmano nello stato di Rakhine che l’Onu descrisse come “ispirato ai principi della pulizia etnica”. Già nei primi giorni della nuova ondata di persecuzioni, nell’Angelus del 27 Papa Francesco aveva ricordato nelle sue parole le sofferenze dei Rohingya e nel corso della sua visita apostolica in Bangladesh, il primo dicembre dello stesso anno, aveva chiesto loro perdono a nome di tutto il mondo. Secondo l’Unhcr, il governo birmano si è detto disponibile a far rientrare nel paese 3.450 dei 22.000 Rohingya presenti in una lista per il rientro volontario, condivisa dal Bangladesh con l’ex Myanmar lo scorso 8 agosto. Ma i profughi avrebbero fatto sapere di non essere stati consultati dal governo bengalese né avrebbero l’intenzione di essere rimpatriati. I Rohingya temono ancora per le loro vite in quella che descrivono come una prigione a cielo aperto.

Gli accordi

L’edizione online del giornale britannico Guardian scrive che il primo tentativo del Bangladesh di effettuare dei rimpatri volontari nel novembre 2018 è stato un insuccesso perché nessuno dei 2000 Rohingya inseriti nelle liste ha dato la propria approvazione. La volontarietà è l’elemento dirimente. Lo stesso governo bengalese ha affermato che i rimpatri saranno sempre di piccoli gruppi e chi non vorrà non sarà obbligato a partire. Le Nazioni unite hanno stabilito che i requisiti per l’operazione-ritorno sono volontarietà, dignità e sicurezza, a cui vanno aggiunti rispetto della libertà e dei diritti dei Rohingya in Birmania. Una portavoce dell’Unhcr, Louise Donovan, ha dichiarato al Guardian che se avessero dato l’assenso all’operazione, il personale dell’agenzia Onu per i rifugiati avrebbe organizzato una serie di incontri individuali e confidenziali con i rifugiati per accertare la libera volontà della scelta e compilare le documentazione. La maggior parte dei profughi non vuole essere rimpatriata perché teme per la proprio vita e di essere rinchiuso nei campi governativi, descritti come “prigioni cielo aperto” senza libertà di movimento né diritti. Uno studio dell’Australian Strategic Policy Institute ha rivelato che non ci sarebbero le condizioni per un rientro pacifico dei Rohingya in Birmania, bensì sarebbero proseguite le distruzioni dei villaggi e la costruzioni di campi governativi e di nuove basi militari.

La repessione

In Bangladesh, a Cox’s Bazar nel Golfo del Bengala, c’è il più grande campo profughi del mondo che ospita circa un milione di Rohingya. Oltre 750mila sono fuggiti dalla Birmania due anni fa in seguito a devastazioni, stupri e uccisioni. Si tratta di una minoranza etnico-religiosa di fede musulmana, fortemente avversata sia dai laici che dai buddisti birmani, che viveva nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Nel 1982 non vennero inclusi tra le 135 etnie che ottennero il diritto alla cittadinanza. Il potere politico-militare che guida pressoché ininterrottamente il paese dal 1948, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, ha sempre fatto leva sul sentimento nazionalistico birmano e sulla religione buddista discriminando le minoranze economicamente e politicamente. Un rapporto di Amnesty International del 2004 tracciava parlava di “confisca delle terre, sfratto e distruzioni delle loro abitazioni”, che “i Rohingya continuano ad essere utilizzati come lavoratori-schiavi”. I primi profughi arrivarono in Bangladesh nel 1978. Varie formazioni separatiste e autonomiste hanno di frequente ingaggiato scontro con il governo birmano e nel 2017 alcuni attacchi alle stazioni di polizia fecero scattare la repressione militare. Un susseguirsi di violenze: villaggi distrutti e dati alle fiamme, migliaia di vittime, donne seviziate. Particolare clamore ha suscitato la quasi indifferenza per la persecuzione dei Rohingya da parte del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Ki, che dagli anni ’90 fino al 2010 è stata agli arresti domiciliari per le sue battaglie per la democrazia e i diritti umani.

A immagine di Dio

Nel corso del suo pontificato, il Papa ha due volte denunciato a livello globale la persecuzione subita dall’etnia Rohingya e non ha avuto paura di infrangere il tabù di chiamare per nome questa etnia di fronte agli interlocutori birmani. La prima volta è stata durante l’Angelus del 27 agosto 2017, qualche manciata di ore dopo l’inizio delle violenze militari sulla popolazione di Rakhine. Scrive Repubblica che in quell’occasione il pontefice disse: “Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà perché li aiutino e perché tutti i loro diritti siano rispettati”. Pochi mesi dopo, durante la sua visita apostolica in Birmania e Bangladesh tra il 28 novembre e il 2 dicembre, il Papa ha incontrato un gruppo di 16 rifiugiati Rohingya in un incontro interreligioso. Erano dodici uomini e quattro donne, tra cui due bambine – riporta Avvenire – e Bergoglio ascoltò le loro storie una ad una. Poi nel discorso pronunciato a braccio, disse parole di fratellanza e uguaglianza. Dopo aver ricevuto delle critiche per non aver pronunciato il nome “rohingya” nell’incontro con le autorità birmane di pochi giorni prima, il Papa – in loro presenza – ha detto: “Anche questi fratelli e sorelle sono l’immagine del Dio vivente. Continuiamo a stare loro vicino perché siano riconosciuti i loro diritti. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”. 

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